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L’alunno immaginario dell’Invalsi

InvalsiA rischio di farsi tacciare di ideologici, bisogna dirlo sui tetti. Qualcuno ha dato un’occhiata alla prova Invalsi di Italiano somministrata agli Esami di Stato del primo ciclo?

Qualcuno ha visto cosa deve riuscire a fare un quattordicenne italiano in 75 minuti dopo averne trascorsi altri 75 a decifrare il test di Matematica?

Se qualcuno lo ha fatto desidero confrontarmi con lui o lei che sia. Voglio chiedergli o chiederle: a chi giova tutto questo? Che conclusioni saranno tratte dai risultati? E poi voglio fare una proposta: proviamo a somministrare la stessa prova a studenti del biennio delle superiori, che ormai peraltro la disertano regolarmente? O ancora: proviamo a somministrarla ad un gruppo di docenti di Italiano del primo ciclo e vediamo cosa combinano in 75 minuti?

C’è qualcosa di disumano sotto il cielo della nostra scuola. C’è qualcosa che prima o poi qualcuno dovrà rivisitare. Si chiama delirio misurativo. Si chiama religione del risultato. Si chiama culto del punteggio e del numero. Desidero incontrare una di queste formatrici e formatori Invalsi, radunare dieci docenti di Italiano del primo ciclo e quindici studenti “bravi”. Metterci tutti attorno a un tavolo con quella roba somministrata il 16. E discutere. Discutere, approfondire, tornare forse con i piedi per terra. Togliamo questa assurdità dagli Esami del primo ciclo. Le menti più intelligenti e preparate si uniscano per ottenere questo. I sindacati. Le associazioni, dei docenti e dei dirigenti. Perché questo, o meglio la sua retroazione, e la sua presenza nei RAV, nei PDM, nei PTOF e soprattutto nell’immaginario collettivo delle scuole e delle famiglie, sta avvelenando tutti i curricoli, gli ambienti di apprendimento ed i percorsi della formazione in servizio. Qualcuno fermi il treno in corsa ed i suoi macchinisti impazziti che distaccati qua e là nelle stanze dell’apparato hanno dimenticato (o non hanno mai saputo) cos’è un quattordicenne nel terzo millennio.

Cogita aut labora

indexUn oggetto sconosciuto si fa strada tra le famiglie dei ragazzi che frequentano le scuole superiori: alternanza scuola-lavoro. In realtà da undici anni la scuola italiana l’aveva messo all’ordine del giorno (DLgs 77/2005), ma la sua realizzazione era stata limitata agli Istituti Tecnici e Professionali e solo in qualche caso ai Licei, certamente non coinvolgendo i Licei di serie A. Adesso tutti a fare alternanza scuola-lavoro. Alunni sedicenni, di tutti gli Istituti superiori, devono fare questa esperienza. Si va, accompagnati da docenti della scuola, in luoghi dove si lavora (aziende, istituti di ricerca, musei, centri accreditati) e si prova a comprendere che vuol dire lavorare. Poi in qualche modo la scuola farà valere nelle proprie valutazioni questo tipo di esperienze. 400 ore in un triennio nei Tecnici e Professionali, 200 ore nei Licei. Lo vuole sempre quella legge chiamata Buona Scuola. E’ un altro tassello. Le scuole convocano i genitori per spiegare di che si tratta. Fin qui l’informazione, per chi, tra i lettori di questo blog, fosse disinformato.

Dovremmo intervistare i defunti Croce Benedetto e Gentile Giovanni per sapere che ne pensano di un liceale che fa l’alternanza scuola-lavoro. Ne penserebbero tutto il male possibile. Tuttavia se a qualcuno in Italia è venuto in mente di alternare la scuola al lavoro nelle scuole superiori forse la responsabilità un po’ è anche loro. Nel 2002 un signore dal cognome Bertagna pose intelligentemente la questione del rapporto tra theorìa e techne nelle nostre scuole. Erano i tempi della Moratti, ed è da lì, dal pur giusto desiderio di superare questa dicotomia radicale, che provennero le prime suggestioni approdate poi nel 2005 nel famoso Decreto. Leggi il resto di questa voce

Facciamo tutti le prove Invalsi

Oggi si sciopera contro le prove Invalsi nelle superiori. Io non sciopero. Sono Legge dello Stato e ritengo che i ragazzi debbano farle. Obbedisco socraticamente ad una Legge che non condivido. A prove che non so cosa misurino. O meglio lo so. Perché le ho fatte anch’io, come se fossi un quindicenne:

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Muraglia 1977

Ecco il risultato delle mie prove del 2014: http://www.insegnareonline.com/cms/doc/900/muragliainvalsi.pdf

 

Insegnare a chi non vuole imparare

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Il massimo rappresentante del CIDI in Italia è un insegnante. Si chiama Giuseppe Bagni ed è toscano come il nostro Presidente del Consiglio che vuole la buona scuola. Il CIDI è un posto in cui da più di 40 anni ci si chiede come si può insegnare a chi non vuole imparare. E Bagni, insieme ad un’altra collega romana, Rosalba Conserva, ci ha scritto su un libro, e proprio con questo titolo: “Insegnare a chi non vuole imparare”. Piuttosto che improbabili ore “erotiche” di lezione, sul comodino di ogni insegnante metterei questo, e ne obbligherei la lettura agli attuali studenti TFA, che a quanto risulta troppe volte sembrano vagare tra le altrettanto improbabili suggestioni didattiche dell’Accademia alla ricerca di bussole su come si sta in classe.

Questo libro verrà presentato martedì 21 aprile a Palermo a Villa Niscemi. Ci sarà Bagni, ci sarà il CIDI di Palermo e ci sarò anch’io che qui scrivo. Non saremo sedotti dalle sirene accademiche o sindacali che per ora vanno per la maggiore, ma si parlerà con molta serietà di insegnamento, di discipline e di studenti (svogliati e sfigati), e per questo invito ad esserci.

Bagni si candiderà per le elezioni del CSPI del 28 di aprile, e il 22 aprile al Cannizzaro ci parlerà di buona scuola alle ore 16.

Whatsapp, laudatores e declinismo

imagesA Vigevano un’insegnante ha mandato per sbaglio una sua foto sexy al gruppo whatsapp che condivide con i suoi alunni. La Dirigente Scolastica della scuola sta facendo luce sulla vicenda per valutare eventuali provvedimenti disciplinari. La notizia, ripresa da vari siti, ha origine dal sito Skuola.net (http://www.skuola.net/news/scuola/foto-sexy-professoressa-whatsapp.html).
Qualche settimana fa era comparso su un altro sito un accorato appello (http://www.osservatoriominori.org/comunicato-stampa/) contro l’ormai diffusa convivenza di alunni e insegnanti nei social network e negli spazi di condivisione consentiti dai cellulari: “Alla luce delle verifiche effettuate chiediamo al ministro Giannini di volersi attivare affinché la presenza dei docenti sui social network venga ad essere regolamentata, con accorgimenti contemplanti anche la possibilità di verifica della condotta virtuale da parte delle istituzioni scolastiche a livello periferico e centrale”. Sta parlando il Presidente dell’Osservatorio dei minori esistente a Milano dal 2000. Leggi il resto di questa voce

Insegnare a imparare

Io volevo sapere la vera storia della gente

come si fa a vivere e cosa serve veramente

perchè l’unica cosa che la scuola dovrebbe fare:

è insegnare a imparare.

 

 

Genitori e figli al tempo dei video hard

La Repubblica ed. Palermo 27.03.2014

Maurizio Muraglia

Di fronte alla diffusione di video hard tra adolescenti dei nostri Licei il senso comune si indignerà e griderà allo scandalo scoprendo che il re è nudo. Ci sarà certamente anche chi troverà in tutto questo conferma a quanto da sempre sostenuto ovvero che cellulari e internet stanno portando i giovani alla deriva perché li espongono alla confusione tra virtuale e reale generando un protagonismo improprio anche a sfondo erotico. L’adolescenza è a rischio, in soldoni. Giustamente la polizia postale interviene. Deve farlo. Di fronte all’esplosione del bubbone bisogna correre ai ripari ed impedire che continuino a diffondersi i filmati che sono stati girati da e tra i ragazzi.

Il re è nudo, si diceva. Chi grida allo scandalo non può ignorarlo. Ma anche chi sta tra i ragazzi e ha cognizione competente di tutto questo si arrovella per cercare di capire cosa si dovrebbe fare per arginare questa deriva. Sì, perché di deriva si tratta, e non c’è relativismo che possa convincerci che l’utilizzo e la diffusione dell’erotismo nei termini di cui stiamo parlando corrisponda ad una qualche realizzazione personale verso cui portare rispetto. Personalmente non porto alcun rispetto verso queste forme. Nessuno. E se dovessi ragionare con queste ragazze e questi ragazzi, se fossero mie alunne e miei alunni, direi loro che queste pratiche hanno tutta la mia disapprovazione. E ce l’hanno non perché voglia fare professione di perbenismo, ma perché la trasgressione a mio parere è cosa ben più seria rispetto alla banalità di farsi riprendere da cellulari in pose erotiche, ammesso che di erotismo (che reputo qualcosa di molto serio) si possa parlare a proposito di queste scenette.
La disapprovazione non scandalizzata è un buon viatico verso la riflessione. Riflessione doverosa e pericolosa, come tutte le riflessioni a rischio di retorica. La retorica in campo educativo è sempre dietro l’angolo, soprattutto quando si pensa all’educazione come il campo delle prediche rivolte da adulti portatori di valori “sani” a giovani che sono preda delle suggestioni più incresciose indotte dagli strumenti diabolici di cui dispongono. La retorica è il campo delle virtù e dei vizi, individuati in modo più o meno “oggettivo” e non sottoposti invece all’indagine sui bisogni, che mi pare quella più appropriata in tutte le situazioni in cui si è spettatori di comportamenti “degenerativi”.
Sul piano dei bisogni c’è sicuramente un precocismo della esibizione. I mezzi digitali scatenano probabilmente il connubio micidiale tra l’ansia da prestazione corporea, tipicamente adolescenziale, e la sua visibilità spettacolarizzata, che dà l’ebbrezza di essere al centro dell’attenzione di molteplici sguardi. Non è un bisogno nuovo. Ancor prima della diffusione delle tecnologie digitali di comunicazione, gli adolescenti hanno sempre cercato di rompere il bunker perbenista degli adulti per accedere ad uno spazio di emancipazione personale. Gli anni Settanta li ricordiamo tutti. I capelli lunghi, lo spinello, l’emancipazione sessuale della donna crearono i presupposti per un nuovo rapporto tra le generazioni, che fino a quel momento appariva destinato al conflitto permanente.
Oggi i rapporti tra le generazioni non sono più né conflittuali né prescrittivi, se non forse in ambienti popolari dove permangono alcune figure feroci di pater familias. Oggi il negoziato appare la forma più diffusa di relazione tra genitori e figli o tra insegnanti e studenti soprattutto in ambienti più colti. Sono diventate obsolete parole come “proibizione” o “controllo”, e gli strumenti digitali hanno reso ancor più problematica se non impraticabile la possibilità di mettere il naso all’interno di spazi piccolissimi di interlocuzione privata. Quale genitore oggi si metterebbe il cellulare della figlia in mano per vedere cosa gira su whatsapp?
Per questo lo spazio discorsivo relativo a questi fatti non può essere né quello dell’indignazione scandalizzata né quello della cosiddetta laudatio temporis acti, l’elogio del buon tempo andato in cui i genitori avevano agio di controllare i figli perché chi voleva contattarli telefonicamente doveva necessariamente passare per un telefono fisso domestico al cui squillo il giovincello doveva riuscire ad arrivare prima dei genitori. E’ il piano dei bisogni invece quello che probabilmente va scrutato con maggiore sapienza intellettuale, ma senza l’ingenua convinzione che possa esserci una ricetta valida in assoluto per neutralizzare derive come quella di cui stiamo parlando. Non ci sono garanzie su questo. Però qualche focus di attenzione, in famiglia e a scuola, può essere attivato, almeno per comprendere che esiste qualche carta se non proprio vincente certamente perdente nel rapporto con i nostri adolescenti.
In primo luogo l’assenza di interesse che genera l’assenza di conflitto. Ed il conflitto né può né deve essere risparmiato ai giovani. Il disinteresse snob degli adulti per i linguaggi e l’immaginario dei ragazzi non aiuta. L’esperienza mostra che il mondo digitale, dei video, delle chat, di facebook è un mondo che i ragazzi possono anche narrare (o condividere) con gli adulti raccontando e discutendo la materia che passa sul web. Più ancora forse aiuterebbe un insegnamento liceale meno attardato su percorsi lontanissimi dall’esperienza dei ragazzi o peggio proteso in una corsa pazza a rovistare nozioni argomenti e paragrafi da affastellare per raggiungere non si sa quale traguardo. Certamente un traguardo cui molti ragazzi non sono interessati perché il loro mondo emotivo si nutre di ben altro. C’è materia di riflessione sui bisogni dei ragazzi. Sobria, non retorica, disillusa quanto basta, ma anche fiduciosa in una qualche possibilità di delineare cornici relazionali e culturali forse più gratificanti di quelle che riserviamo oggi ai nostri ragazzi.

 

Come si impara l’italiano?

OCSE-PISA sentenzia che i nostri adolescenti sono scarsi in lingua italiana. I meridionali, ovviamente, in sommo grado.

A chi se l’è persa segnalo questa intervista, rilasciata dal linguista Luca Serianni lo scorso 26 febbraio a “Repubblica”, che mi appare molto istruttiva, più istruttiva sicuramente del suo stesso libro di “teoria grammaticale” feroce…..quella che qui egli stesso critica (“Si insiste troppo sulla teoria grammaticale, specie nella scuola media e nel biennio. Talvolta si sfiora l’ossessione su nozioni di analisi logica del tutto inutili: è davvero fondamentale distinguere il complemento di compagnia dal complemento d’unione?”): http://www.repubblica.it/cultura/2014/02/26/news/se_i_ragazzi_italiani_non_sanno_l_italiano-79689195/ Il problema purtroppo è che spesso la mano destra (OCSE-PISA) non sa quel che fa la sinistra (Invalsi)…….

Qualcuno lo azzardò diversi decenni fa, ma nessuno oggi osa dire che l’analisi grammaticale e logica (?) non ha mai insegnato a nessuno a comprendere e produrre testi di senso compiuto, cioè quel che serve per vivere nella democrazia? Oppure che serve esclusivamente a “dare-rigore-di-pensiero” ovvero preparare – ammesso che sia vero – latinisti e grecisti, nel senso (ridotto) di esperti di grammatica latina e greca?

Date un occhio a http://www.giscel.it/?q=content/dieci-tesi-leducazione-linguistica-democratica, dove linguisti imberbi alle prime armi parlano di inefficacia della “pedagogia linguistica tradizionale”. Siamo nel 1975…..