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Il CIDI di Palermo festeggia la didattica

Ieri il CIDI di Palermo, presso l’IC “Rita Borsellino”, ha realizzato la sua annuale giornata del curricolo. Tante e tanti docenti si sono presentati per raccontare le loro esperienze didattiche o per ascoltarle. Coinvolto ogni ordine e grado di studi e ogni area del sapere. Un pomeriggio pieno di spunti, riflessioni, condivisioni. Ne verrebbe fuori un libro, se si radunasse l’immensa ricchezza prodotta. Le sessioni parallele, coordinate da Agata Gueli, Luigi Menna e Viviana Conti, sono state precedute da due interventi-cornice di Caterina Gammaldi e Maurizio Muraglia. Hanno introdotto i lavori la presidente nazionale Valentina Chinnici e la presidente del CIDI di Palermo Daniela Sortino. Accoglienza perfetta della scuola e della sua DS Lucia Sorce.

E’ stata davvero la festa della didattica vera e viva.

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Montanari è competente ma detesta la competenza…

A Palermo ieri tanti di noi, grazie ai fratelli editori Palumbo, hanno avuto il privilegio di ascoltare Tomaso Montanari e Pietro Cataldi su un tema di grande fascino, l’educazione sentimentale e la vita interiore tra arte e letteratura. Davvero si è trattato di un evento capace di suscitare tante riflessioni, soprattutto tra chi ha compiti educativi e di insegnamento a scuola, e tanti ce n’erano a Palazzo Steri. Montanari e Cataldi magnifici. Profondi. Coinvolgenti.

Montanari è un grande esperto d’arte. E Cataldi di letteratura. Nessuno avrebbe avuto dubbi in sala a definire entrambi due persone competenti. Senza virgolette. Competenti. Ciascuno di loro parlava di ciò che conosceva e padroneggiava. Di più: ne parlava in modo coinvolgente. Questo è avvenuto perché hanno costruito nel tempo una competenza almeno ternaria: disciplinare, culturale, comunicativa.

Ma Montanari non se n’è accorto. Appena ne ha avuto la possibilità ha cominciato a rifriggere la solita frittata delle competenze al servizio del capitale umano, delle competenze nemiche delle conoscenze, delle competenze misurabili e di tutto quel repertorio di luoghi comuni già somministratoci nel tempo da coloro che si indignerebbero certamente se qualche pedagogista o qualche insegnante si mettesse a discettare di psicanalisi o di filosofia. Eppure la filiera dei Morelli, dei Recalcati e dei Galimberti adesso annovera anche il professor Montanari. Finita la spiritualità, l’arte e la cultura, è iniziata la paccottiglia dell’accademia che discetta di apprendimento scolastico davanti a docenti osannanti. Un assist involontario ovviamente a coloro, tra i presenti, che sono orientati alla cultura disinteressata e “contemplativa” (che nelle classi scolastiche vuol dire astratta e pedante). Cioè proprio coloro a cui i due relatori non erano interessati a rivolgersi. Eterogenesi dei fini.

Giustamente Montanari lamenta l’attitudine a confinare gli esperti che trattano di politica e cittadinanza nel chiuso delle proprie discipline. Ma l’esperto che esonda deve anch’egli avere una sua deontologia intellettuale. Se no finisce a dilettantismo. Dunque, piuttosto che chiedere a chi ne sa più di lui – come farebbe chi ne sa meno di lui di storia dell’arte – quale accezione assume il concetto di competenza in ambito pedagogico e culturale – e magari anche tentare una via per cambiare nomen ad una res che però lui possiede e tutti ci auguriamo che gli alunni possiedano – egli invita i docenti addirittura all’obiezione di coscienza. Che ci vorrebbe davvero, ma non verso le competenze, bensì verso la burocrazia inutile, la medicalizzazione del disagio scolastico, la messinscena dell’ educazione civica a 33 ore e dei tutor orientativi a 30 ore. Per fortuna, quando egli era studente, i suoi docenti non fecero obiezione di coscienza sulle competenze. E costruirono la sua, di competenza. Che mi porterà in libreria a comprare il suo ultimo libro sull’arte.

Ma qualcuno la democrazia nelle scuole l’ha vista?

Non c’è niente di più complicato che praticare la resistenza in tempi di libertà. A me il 25 aprile fa pensare questo. È vero, come diceva Troisi, a proposito del Miracolo: c’è Liberazione e liberazione. Ma pensare alla seconda non è anche un buon modo per celebrare la prima? E in che misura la scuola è coinvolta in questo discorso? Rileggendo in questi giorni per l’ennesima volta la Lettera a una professoressa degli allievi di don Milani, la cui nascita risale a cento anni fa, ho rivisto quanto quel testo trasuda di resistenza e di desiderio di liberazione. Eppure nel 1967 non c’era più la dittatura. Qualcosa non torna? Si può quindi parlare di resistenza in tempi di libertà?

Michele Serra chiamava il suo “Cuore” settimanale di resistenza umana. Ecco, resistenza umana. La scuola di oggi sembra avere dimenticato la resistenza umana forse perché non si accorge più di quel che accade. Prendiamo le ultime sparate ministeriali, di un Ministero appartenente ad una libera Repubblica democratica. Finita la sbornia del 25 aprile tutte le scuole torneranno ad adoperarsi per trovare i docenti orientatori e i docenti tutor. Difficile immaginare che all’interno delle scuole si sia avviata una riflessione collegiale sul significato di questa novità. Nelle scuole non si discute più ormai. Si esegue. Altro che resistenza e liberazione. Qui manca il prerequisito di entrambe: la libera discussione democratica.

La vicenda dell’Educazione civica e del docente tutor sono esemplari. I dirigenti scolastici, che pure in molti casi sono figure di gran spessore intellettuale e civile, non hanno altra chance che essere mere cinghie di trasmissione nel veicolare le decisioni ministeriali a Collegi che le recepiscono senza discutere. Al più, si adoperano per favorire ricezioni intelligenti dell’Insensatezza. Ma nella sostanza il sistema è feudale, dal ministro ai direttori regionali con i loro dirigenti tecnici comandati che producono slides e visite ispettive, ai dirigenti scolastici, per finire ai docenti, proletariato intellettuale esecutore. Dov’è la libertà? Quando all’interno di un Collegio qualcuno tenta di avviare una discussione nel merito di una misura ministeriale scatta la clessidra. Quando non peggio. Nelle sale professori idem. Il desiderio comune è quello di star quieti. La maggior parte dei docenti non ha voglia di ragionare su ciò che “si deve fare”. Nella fattispecie, la questione del tutor è soltanto un adempimento. Occorre soltanto trovare le disponibilità. È uscita la circolare con la masticazione del decreto ministeriale fatta dal dirigente. Cosa vuoi discutere.

Cosa poi debba fare un tutor non è chiaro a nessuno. E non sorprende. Perché in realtà non è chiaro cosa si debba fare per “orientare”. Ogni alunno, nel momento in cui mette piede in un’aula scolastica, deve studiare insieme ad altri compagni. Si trova davanti insegnanti e saperi scolastici. E deve capire qual è la sua via. Per la verità, fino alla terza media c’è poco da capire la via. Tutti insieme appassionatamente. La questione si pone alla fine del primo ciclo ed ha a che fare, ancora, con i saperi e con le capacità che l’allievo va acquisendo. Dunque con gli insegnanti di quell’allievo, che si riuniscono periodicamente per fare il punto sulla situazione degli apprendimenti. Sono essi che intrattengono un rapporto “orientativo” con l’allievo. Sulla base dei saperi, di fronte ai quali ogni allievo misura le proprie inclinazioni favorevoli. Oppure il proprio odio. A seconda di chi va in cattedra. Le famiglie c’entrano molto poco. Non sono addette ai lavori, lo diventano quando chi lo dovrebbe essere non è all’altezza. Sanno tutti che basta insegnare con serietà e competenza, rendendo operativo e vitale il rapporto con i saperi, perché l’allievo non si senta “disorientato”. Lo sanno anche al Ministero. Ma arrivano soldi. E vanno spesi. Un po’ di prosopopea e di paccottiglia pedagogica di contorno ed ecco il tutor bell’e fatto.

Si dice che la scuola sia maestra di democrazia ma è solo retorica, perché non esistono le condizioni per insegnarla o praticarla in classe, e non esistono perché chi non la pratica non la può insegnare. Ancora il voto di condotta si abbassa se l’allievo è impertinente e la dice sul muso al docente. La rivalsa. Altro che 25 aprile.  

Insomma, mai come in quest’epoca la democrazia interna alle scuole ha toccato il fondo. Mai come in quest’epoca è assente ogni forma di resistenza di fronte a misure insensate, incompetenti, inessenziali. Le ultime significative obiezioni di coscienza interne alle scuole risalgono al portfolio del 2004 e al bonus premiale del 2015. L’uno e l’altro infatti sono stati affossati in virtù di prese di posizioni forti. Questioni educative di grande portata, quali l’inclusione, il merito, la cittadinanza o l’orientamento, sono ridotte a certificazioni da compilare per sedare le famiglie oppure a numero di ore da dichiarare, 33 di educazione civica, 30 di orientamento. Banalità pedagogiche. L’educazione ridotta a Burocrazia ed Adempimento. Altro che festa della Liberazione. Questa è la festa della Sudditanza. Nessuna Greta Thunberg della scuola all’orizzonte. Si naviga a vista. Buon 25 aprile.

Dante per gli studenti dei “Classici in strada”

Maurizio Muraglia, Laura Mollica e Anna Cannizzo

Lo scorso 9 marzo, nell’aula magna del Liceo “De Cosmi” di Palermo, nell’ambito dell’iniziativa “Classici in strada” che coinvolge una rete di scuole, ho incontrato gli studenti di quella scuola in presenza, ma anche gli studenti della rete in remoto, per affrontare il tema dei fiumi nella Divina Commedia col prezioso supporto iconografico della collega Laura Mollica, moderatrice dell’evento e coautrice con me del testo “Dante parla ancora?” edito nel 2021 da Di Girolamo. Riassumo qui il contributo offerto alle ragazze e ai ragazzi di quella scuola.

All’interno della Commedia è presente tanta geografia fisica, ovviamente per quel che riguarda l’Inferno e il Purgatorio. Si tratta di una geografia dell’anima, per la quale i singoli elementi si configurano in relazione a dimensioni esistenziali che il poeta vuole via via mettere in luce. Il fiume rimanda certamente al dinamismo della vita umana, con il suo scorrere placido o strozzato, col suo straripare o inaridirsi o ancora ghiacciarsi.

Quattro sono i fiumi infernali: Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito.

L’Acheronte è il fiume che evoca la transizione da una condizione ad un’altra. Per Dante, che non è ancora morto, si tratta del passaggio dalla vita ordinaria all’inferno propriamente detto, che è inferno dell’animo, scavo tra le proprie fragilità, contraddizioni, criticità. Passaggio difficile, che richiede volontà e coraggio, ma che Dante effettua in modo inconscio, perché egli non salirà mai sulla barca di Caronte con le altre anime, ma si ritroverà “guadato” inconsapevolmente. Infatti il testo evoca un vero e proprio terremoto che determina lo svenimento del viaggiatore ed il suo ritrovarsi sull’altra riva del fiume senza accorgersene.

Lo Stige è vera e propria palude fangosa, che vede iracondi e accidiosi immersi in una pozza lurida. I primi si dilaniano vicendevolmente, mentre i secondi risultano sommersi dal fango e riescono appena a farfugliare qualcosa facendo gorgogliare la palude. Sono vite che ristagnano in modo putrido, vite avvelenate dall’ira esplosa e dall’ira implosa. Sono vite degradate, che non riescono più a “scorrere” e restano impaludate in un’acredine eterna, senza respiro. Vite paralizzate.

Il Flegetonte è il fiume che scorre ribollendo di sangue, metafora dell’animalità cui si riducono i violenti. Violenti contro il prossimo, contro se stessi e contro Dio. Il Flegetonte, col suo sangue, avvolge tutte le violenze di cui è capace l’uomo.

La vita che non scorre più perché è cristalizzata nel ghiaccio è rappresentata dal Cocito, il fiume-lago di ghiaccio in cui sono sommersi i traditori. Per Dante tradire è come cessare di vivere, immobilizzare l’anima in uno stato di gelo permanente, reso tale peraltro dal continuo battito d’ali dell’enorme Lucifero conficcato al centro della terra.

Il Purgatorio ha due fiumi, entrambi provenienti da una sorgente divina: il Lete e l’Eunoé. Dante si immerge in essi nel Paradiso terrestre perché la sua purificazione e disposizione a salire alle stelle avvenga con un doppio passaggio, l’oblio dei propri peccati, col superamento del senso di colpa, e la memoria del bene compiuto. Dante ha attraversato gli inferni della propria anima imbattendosi nei fiumi infernali, che, al contrario di quelli purgatoriali, erano tutti originati dalle lacrime del Veglio di Creta, come spiega il maestro Virgilio.

I fiumi del Purgatorio sono necessari per restituire a Dante la piena umanità, tant’è vero che dopo l’immersione, quasi battesimale, nel Lete, Dante è consegnato a quattro fanciulle danzanti che rappresentano le quattro virtù cardinali, ovvero il requisito della piena umanità.

Dalla metafora del fiume non è esente neppure il Paradiso, che verso la sua conclusione pone davanti ai lettori la fiumana di luce che approda alla candida rosa, luogo della festa di tutti i beati.

Dai fiumi di fango o sangue al fiume di luce, il rapporto di Dante con i fiumi si configura quale rapporto con le varie sfaccettature della vita umana. L’Acheronte rappresentava il doloroso transito verso l’abisso del proprio dolore, mentre il fiume paradisiaco rappresenterà la capacità di Dante di sapere contemplare la bellezza.

Gramellini, non prendere troppi caffè….

“Poche notizie mi rendono pessimista sul futuro come la caduta inarrestabile delle iscrizioni al liceo classico: il prossimo anno lo frequenterà appena il 5,8% degli alunni di terza media che proseguiranno gli studi. Il classico non è nello spirito del tempo, secondo cui la scuola serve solo a trovare lavoro. E poiché si pensa che il mondo di domani avrà più bisogno di tecnici che di umanisti, studiare l’Iliade sembra a molti una perdita di tempo. Avrei parecchio da obiettare su questo punto (fior di economisti e ingegneri provengono dal classico), ma prendiamolo per buono. Però non fin dall’adolescenza, dai.

A quattordici anni nessuno sa ancora chi è: invece di restringergli il campo, bisogna allargarglielo a dismisura. Tutte le passioni della mia vita le ho assaggiate a quell’età, comprese la musica e lo sport, di cui leggevo le cronache sotto il banco durante le lezioni più noiose. Ma erano le cronache di Gianni Brera, uno che sapeva coniugare il racconto della partita con l’epica di Omero. È vero, il classico non ti spiega «come» funziona il mondo, ma in compenso ti abitua a chiederti «perché». A capire le cause delle cose, a snasare il conformismo degli anticonformisti, ad addestrare i sensi e la mente per riuscire a cogliere la bellezza in un tramonto o anche solo in una vetrina. Il classico è come la cyclette: mentre ci stai sopra, fai fatica e ti sembra che non porti da nessuna parte. Ma quando scendi, scopri che ti ha fornito i muscoli per andare dappertutto.”

(Gramellini, Il Caffè, Corriere dell’1 febbraio)

La noia che mi assale non viene da Gramellini, ma dalla retorica nostalgica che fa scaturire. Ho fatto il liceo classico, mi sono laureato in lettere classiche e insegno al liceo classico dopo aver insegnato in quasi tutti gli altri indirizzi. Uscendo dal classico mi sono sentito fortissimo in alcune materie, un vero demente in altre. All’università ho dovuto studiare di sana pianta materie che oggi insegno. Perché al liceo su queste materie ho ottenuto zero. Dai miei studi passati e recenti, dalla mia esperienza in classe passata e presente e da quello che ho osservato negli ultimi 40 anni ho ricavato che ci sono due stoltezze, una presunta ed una sicura: la prima sarebbe abolire il liceo classico (ma non so chi lo stia facendo, Gramellini lo deduce abusivamente dal calo di iscrizioni); l’altra sarebbe che è la scuola migliore, come vorrebbe il codazzo di ammiratrici e ammiratori che fa girare la geremiade del signor Gramellini. Non c’è bisogno di essere Maurizio Bettini, uno dei massimi classicisti viventi, per evitare la trita mitologia della classicità – che gronda sangue, violenza, ingiustizia, pregiudizio e discriminazione in modo non dissimile da tutte le altre epoche – o Raffaele Simone, uno dei massimi linguisti viventi, per evitare la trita mitologia delle lingue “logiche” (che un minimo di competenze in linguistica dovrebbe far ritenere un’assurdità). Proprio le mitologie, le pedanterie e le nostalgie ingenue accelerano la caduta in picchiata del liceo classico.

Basterebbe invece soltanto il buon senso di capire che ci sono alunni usciti dal classico che riescono bene ed altri che riescono male. La differenza non la fa la patetica convinzione che i secondi “non sono portati”, ma la più elementare constatazione che non hanno avuto docenti all’altezza. E se un docente non è all’altezza – come si è visto, si vede e si vedrà al classico e altrove – c’è poco da mitizzare. E poi occorrerebbe evitare di offendere tutte le alunne e gli alunni che il classico non lo fanno e che sono fior di intelligenze. L’Italia non potrebbe reggersi con i soli allievi usciti dal classico, e men che meno con gli ancora numericamente inferiori che hanno avuto la fortuna di non venir fuori da docenti incapaci, inesperti o cambiati ogni anno.

Se ne ricordassero Gramellini e i gramellinidi che spopolano sui social. Facciano un bel sondaggio tra le ragazze e i ragazzi usciti dal classico e soprattutto stiano nella realtà piuttosto che nella fiction.

Che Dirigenti scolastiche/i vogliamo?

L’Ufficio Scolastico Regionale della Sicilia avvia dal prossimo 8 febbraio una formazione (“alta”, così la chiamano) per le dirigenti e i dirigenti scolastici della scuola siciliana. Poiché sono un insegnante e ho sempre ritenuto che dalla qualità della dirigenza dipenda in larghissima misura la qualità ed il benessere di una scuola, ho voluto curiosare nel programma, postato dal sito USR il 27 dicembre scorso, per vedere che tipo di dirigente ha in mente l’amministrazione. Non che non sapessi che ormai gli inquilini delle presidenze scolastiche si occupano (non per loro volontà!) di tutt’altro che del motivo essenziale per cui quella roba lì si chiama “scuola”, ma ho voluto cercare conferma (o disconferma) tra i temi che affronteranno nelle 10 ore (sic!) previste per la loro, come la chiamano, “formazione”.

L’incontro finale (lo chiamano Masterclass) sarebbe l’unico che si occupa di questioni educative. La spruzzatina pedagogica risulterebbe affidata ad una professoressa universitaria che in questo momento impazza sul web per le sue modalità comunicative seducenti. Si chiama Daniela Lucangeli e garantisce sempre ampie platee osannanti per la sua capacità di divulgare alcuni capisaldi, abbastanza noti a chi studia e non timbra il cartellino, della pedagogia novecentesca. Sic tempora sunt.

Le tematiche proposte hanno a che fare con le preoccupazioni tipiche degli ex docenti che oggi dirigono le scuole: diritto amministrativo, contenziosi, questioni di privacy, teorie della comunicazione e questioni digitali. Chissà se qualcuno ha suggerito al nostro USR tematiche del genere:

Il disagio giovanile nell’età contemporanea

La progettazione formativa del curricolo

La dimensione formativa della valutazione

L’interazione con le famiglie

L’evoluzione epistemologica dei saperi

Non credo. Ciascuna di queste meriterebbe chissà quante ore di lavoro. Eppure, se ci pensiamo, potrebbero riguardare i nostri dirigenti per il semplice fatto che sono il cuore della scuola: gli allievi e i loro sfondi familiari, il curricolo e la valutazione, le discipline scolastiche. Insomma il chi, il cosa e il come.

Sarà la fascinosa Lucangeli a distillarle in un pomeriggio?

Tanto belli quanto inutili

Alcuni anni fa ci provò Recalcati, col suo erotico “L’ora di lezione”. Grande successo. L’uomo sa scrivere. Quest’anno ci ha rimesso mano Zagrebelsky, col suo “La lezione”. Entrambi, of course, non sono insegnanti di scuola. Nel suo, l’insigne giurista esemplifica sempre pensando ai suoi studenti universitari. Anche il suo libro si fa apprezzare. Scritto bene, con passione e cultura. Sono libri che contengono cose belle, ma è difficile che a leggerli sia il lettore implicito da essi presupposto, cioè chi fa tutt’altro in classe. Chi non fa per niente le cose scritte in quei due libri non ha motivo di leggerli, e se li leggesse non saprebbe di che parlano. Quindi sono libri sostanzialmente inutili, perché confermativi presso coloro che poi realmente li leggono. Cioè sono esteticamente utili, ma non spostano una virgola.

Non spostano una virgola perché non mutano il dosaggio tra chi cerca di rendere la lezione un evento della mente, o dantescamente dell’emozione intellettuale se si vuole, e chi, pur volendo fare lo stesso, non sa farlo, o se sa farlo non lo fa perché il burocrate che è in lei o in lui prevale. Questa seconda antropologia docente è quella più diffusa, e pertanto la referente principe delle sparate ministeriali. Asfaltata dal sistema tecnocratico che assume la veste del concorso a cattedra quizzologico e nozionistico, di qualche dirigente ansiogeno più realista del re, del registro elettronico idiota che propone mezzi e quarti di voto, di famiglie legate a ricordi da libro Cuore che sfornano ulteriori banalità da bar quando discutono di scuola, di una cultura valutativa demenziale tutta intrisa di medie e percentuali in cui sguazzano gli illusi dell’ossimorica valutazione oggettiva e del migliorabile-solo-ciò-che-è-misurabile.

Sono libri che presuppongono che chi va in classe sia una donna libera o un uomo libero. Merce rara. Ma quando accade tutto è lezione, come provai qualche anno fa a raccontare qui, con ben più scarsa tiratura.

Il ministero meritevole e moralizzatore

Il ministro protempore della scuola emana una circolare in cui ribadisce il divieto di uso del cellulare a scuola. Che è una formulazione essenzialmente inesatta. E’ il divieto di abuso, non il divieto di uso. Che gli abusi di qualsiasi genere siano vietati è un’ovvietà. Infatti poi non può (perché non deve) fare a meno di precisare che per fini didattici e formativi autorizzati dal docente i cellulari si possono usare. Il dibattito stucchevole è partito, molto spesso dopo una lettura superficiale del testo ed una sostanziale ignoranza del suo sovrascopo. Sono anni che la stessa politica ministeriale enfatizza le competenze digitali. Si fa formazione ai docenti sull’uso formativo dei dispositivi personali. Qualcosa non torna. Già nel 2007 il dimenticato ministro del centrosinistra Fioroni, che mai e poi mai l’attuale ministro avrebbe desiderato citare se non fosse per portare avanti il sovrascopo della circolare, aveva inneggiato al ritorno della serietà. E adesso i cultori della serietà tornano ad occuparsi della scuola, quando proprio i loro sodali ed essi stessi ammorbano ogni giorno l’aria che si respira con gli squilli dei loro cellulari. Nel 2007 ad un convegno sulla scuola che si svolgeva nelle Marche cui ho presenziato un esperto di scuola rivolse la parola al ministro Fioroni che per tutta risposta si alzò e si appartò per parlare al cellulare. Quanto dire.

Che in classe un alunno possieda o non possieda il cellulare è un problema di chi insegna. Tenerlo nelle mani e fare altro rispetto a quanto viene insegnato è sbagliato ma non c’è bisogno della circolare ministeriale per capirlo. Tante cose sono sbagliate a scuola: anche studiare Matematica mentre c’è Filosofia, ma nessuno vieterebbe di portare il libro di Matematica. Anche pensare ad altro mentre si spiega, ma nessuno vieterebbe di portare a scuola il cervello.

La finiscano i politici di compulsare il sistema con circolari il cui sovrascopo è solo quello di annunciare a benpensanti sparsi qua e là – inclusi docenti che in classe avrebbero comunque seri problemi a farsi seguire – il ritorno della serietà. La parola divieto è molto seduttiva, si sa. Solletica l’immaginario dell’uomo della strada e lo illude che vietare significhi risolvere. La solita pantomima delle soluzioni semplici a questioni complesse. Se a scuola c’è noia e desiderio di fare altro non sarà la sparizione del cellulare, cioè della tentazione di fare altro, che risolve il problema. Il problema è la noia, e la noia è una questione relazionale, educativa e didattica. Che si affronta discutendo sui saperi della scuola, sulla pedanteria di troppi insegnanti, su una caricatura di valutazione che ancora fa medie aritmetiche e sulla burocrazia che ormai appesta la vita degli insegnanti distraendoli dal cuore della loro professione, che resta culturale. La scuola affonda ed il ministro sequestra i cellulari. Non so se il riso o la pietà prevale, diceva il poeta recanatese.

Caro ministro, ci levi mano. Glielo dice un docente che usa e fa usare il cellulare in classe perché in classe si studia, si ricerca e si dibatte. E oggi non si studia, non si ricerca e non si dibatte senza il supporto di un cellulare. C’è in classe il libro e c’è il cellulare. Entrambi si aiutano e tutti siamo più istruiti. Il cellulare lo usa anche lei ed i suoi colleghi politici. Lo usano gli insegnanti e i dirigenti. Sempre. Perché vivono nel loro tempo. Che distragga o non distragga dal proprio dovere fa parte dello scenario cognitivo in cui anche a lei tocca vivere. La sua circolare non dice niente di più di quanto è ovvio, cioè che è vietato fare un’altra cosa rispetto a quella che si ha il dovere di fare. La spieghi ai suoi colleghi parlamentari, quando si sta lavorando per il bene comune e si fanno gli affari loro dentro il loro cellulare. La spieghi anche ai dirigenti, che lo usano durante le conferenze di servizio, e ai docenti, che lo usano durante i collegi dei docenti. Nel caso dei ragazzi, la monelleria ricade su di loro, nel caso degli adulti la monelleria ricade su tutti noi.

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