Archivi categoria: Educazione e scuola

State buoni se potete (politically correct)

Che idea diffusa c’è sul “manifestare”, sul “dissentire”? Può esserci spazio per un politicamente corretto del manifestare? Certo ci sono delle regole cui nessuno può venir meno. Da un lato. Dall’altro c’è che l’indignarsi, a meno che non sia una buffonata, presuppone rabbia, sdegno, voglia di cambiare le cose.

Quanto ci si lamenta dell’apatia dei nostri ragazzi? Non si indignano per niente, sono indifferenti, sono abbarbicati al cellulare. Ma il mondo degli adulti davvero si lamenta di questo oppure sotto sotto lo benedice? La discussione dei docenti al momento del voto di condotta sembra esemplare. L’alunno che dissente dal modo di insegnare del docente difficilmente avrà “dieci”. Di più: c’è anche l’alunno un po’ “vivace” che paga pegno e magari si prende il suo “nove”, se non “otto”, perché ha subito qualche nota.

Siamo davvero convinti di desiderare alunni capaci di “esagerare”, che è quella situazione in cui ci si trova quando si è incazzati? Oppure abbiamo tanta voglia di alunni buoni, ubbidienti, diligenti, che rompono il meno possibile? Di quale immaginario si nutrono i cittadini?

La verità è che la nostra educazione resta tutto sommato perbenista e normalizzatrice. Sono rari gli insegnanti che col monello discutono. Tanti ancora sanzionano. Convinti che la sanzione sia un rimedio alla monelleria, ammesso che questa sia tale. La sanzione punitiva a scuola è legittima? Senza dubbio. Ma il criterio di legittimità sul piano educativo non sempre è il criterio vincente. Perché poi dietro presunte legittimità si nasconde il manganello.

Nell’immaginario educativo non ha ancora trovato posto un’idea di educazione dialogica, capace anche di rischiare che la monelleria abbia il sopravvento pur di mantenere la relazione. Insomma un’educazione non violenta.

State buoni se potete

I ragazzi manifestanti subiscono manganellate dalle forze dell’ordine. Indignazione generalizzata, persino dal Quirinale. Sacrosanta. Però occorre fare un passo ulteriore. Che idea diffusa c’è sul “manifestare”, sul “dissentire”? Può esserci spazio per un politicamente corretto del manifestare? Certo ci sono delle regole cui nessuno può venir meno. Da un lato. Dall’altro c’è che l’indignarsi, a meno che non sia una buffonata, presuppone rabbia, sdegno, voglia di cambiare le cose.

Quanto ci si lamenta dell’apatia dei nostri ragazzi? Non si indignano per niente, sono indifferenti, sono abbarbicati al cellulare. Ma il mondo degli adulti davvero si lamenta di questo oppure sotto sotto lo benedice? La discussione dei docenti al momento del voto di condotta sembra esemplare. L’alunno che dissente dal modo di insegnare del docente difficilmente avrà “dieci”. Di più: c’è anche l’alunno un po’ “vivace” che paga pegno e magari si prende il suo “nove”, se non “otto”, perché ha subito qualche nota.

Siamo davvero convinti di desiderare alunni capaci di “esagerare”, che è quella situazione in cui ci si trova quando si è incazzati? Oppure abbiamo tanta voglia di alunni buoni, ubbidienti, diligenti, che rompono il meno possibile? Di quale immaginario si nutrono anche i ragazzi delle forze dell’ordine, senza che necessariamente debbano avere avuto ordini dall’alto?

La verità è che la nostra educazione resta tutto sommato perbenista e normalizzatrice. Sono rari gli insegnanti che col monello discutono. Tanti ancora sanzionano. Convinti che la sanzione sia un rimedio alla monelleria, ammesso che questa sia tale. La sanzione punitiva a scuola è legittima? Senza dubbio. Ma il criterio di legittimità sul piano educativo non sempre è il criterio vincente. Perché poi dietro presunte legittimità (manifestazione non autorizzata ecc.) si nasconde il manganello.

Il poliziotto che manganella è figlio di un immaginario in cui non ha ancora trovato posto un’idea di educazione dialogica, capace anche di rischiare che la monelleria abbia il sopravvento pur di mantenere la relazione. Insomma un’educazione non violenta, quale magari i nostri giovani poliziotti non hanno ricevuto.

Murgia superstar? Ma la libertà non è una passeggiata

La scomparsa di Michela Murgia, come avviene di solito per tutte e tutti coloro che pongono un segno riconoscibile nel discorso pubblico, ha generato articoli e commenti sulle testate giornalistiche, dibattiti anche aspri sui social ed in generale espressioni di stima anche da parte di aree intellettuali a lei avverse. Non essendo un esperto di Murgia, perché non ho mai letto alcun suo libro, ma seguendola qua e là nel dibattito pubblico, ho cercato di rendermi conto di quale fosse (e ancora sia mentre scrivo) la posta in gioco delle celebrazioni o, per meglio dire, la valenza politica del segno da lei lasciato.

Mi è subito parso chiaro che la vita di questa donna è stata un inno alla libertà. E pertanto, come in tutti questi casi accade, pensiamo solo a Pasolini, è stata una vita divisiva. Ed è su questa platea di denigratori e plaudenti che vorrei soffermarmi, non ritenendomi in grado, per decenza intellettuale, di schierarmi tra gli uni o tra gli altri.

Tanto si è discusso sulla sua comunità queer, che avrebbe rappresentato la forma più alta di emancipazione intellettuale ed esistenziale, che Murgia abbia messo in atto, dallo schema familiare borghese. Non mi è sfuggito neppure il forte impegno nella direzione di un abbattimento degli stereotipi che costituiscono il brodo di coltura della violenza contro le donne.

Ho letto commenti provenienti da testate cattoliche come Avvenire, che con garbo e chiarezza hanno con evidenza manifestato rispetto ma preso le distanze dall’impostazione data da Murgia ai legami familiari. Niente di nuovo. Cosa deve scrivere Avvenire? Curiosamente queste prese di distanze vanno a braccetto con analoghe prese di distanze di loschi figuri della politica cui della famiglia cristiana non frega un tubo e usano il vangelo e la fede per farsi i propri comodi elettorali e aumentare consenso. Questo è squallore. Non Avvenire.

Tuttavia ho la sensazione che anche tanti plaudenti, che ad esempio inneggiano alla diffusione del Murgia-pensiero nelle scuole, siano mossi più da un’estetica social-chic che da reale e praticata sintonia di vedute o comunanza di pratiche in tema di libertà e di abbattimento degli schemi familiari legati al sangue e ai ruoli. Deliziose signore da apericena e selfie in gommone maritate in chiesa e rigorosamente eterosessuali e monomaschili sproloquiano sulla libertà di Michela Murgia probabilmente non avendo ben letto le coordinate della propria vita, le scelte compiute, la sequenza dei no alla libertà che la loro vita testimonia. Anche qui un po’ di misura e di decenza intellettuale non guasterebbe.

Il familismo italiano è ben celebre. Nella vita di tutti i giorni è constatabile il filo spinato eretto in tantissime famiglie borghesi tra familiari e parenti da un lato ed “estranei” dall’altro. Arruolarsi nell’esercito di Murgia solo in chiacchiera social-chic senza aver vissuto concretamente l’esperienza della comunità d’amore i cui confini non sono legati ai ruoli, mi pare operazione piuttosto banale. Forse a qualcuna o qualcuno che resta sedotto dallo schema-Murgia occorrerebbe spiegare le complesse dinamiche istituite da un’impostazione di questo genere, di cui si rischia di vedere soltanto una forma di libertà new age cui proiettare le proprie frustrazioni da ordinaria routine familiare. 

Personalmente guardo con simpatia e ammirazione a quel modello di comunità, che rievoca – i cattolici lo dovrebbero sapere, se ancora aprono le Scritture – la relativizzazione dei legami familiari compiuta dallo stesso Gesù di Nazareth nel corso della sua predicazione. Non è il mio modello, perché ho fatto scelte diverse, perché ho seguito un’impostazione più borghese forse per scarso coraggio e debolezza di letture, ma proprio per questo adotto un profilo basso nell’urlare la mia adesione incondizionata al Murgia-pensiero e prendo le distanze dalle facili adesioni ed esaltazioni, perché la vita di Michela Murgia è stata scomoda, molto scomoda, mentre la vita delle inneggiatrici e degli inneggiatori alla libertà non mi appare spesso altrettanto scomoda.

Una parola sull’educazione e sulla scuola. Il pensiero di Murgia a scuola calerebbe come l’acqua sul marmo. La scuola è un contenitore altamente conformista, in cui lo schema-base della famiglia tradizionale raramente è messo in discussione. Il blocco genitori-docenti su questo è molto meno discontinuo di quanto facciano pensare le lamentele dei docenti nei confronti dei genitori. Sono pesci che si fronteggiano dentro lo stesso acquario, in cui Murgia non entrerebbe mai. Non c’è libertà di pensiero nelle scuole, solo uno schema esecutivo top-down che il ceto impiegatizio dei docenti ha la preoccupazione di mettere in atto. Se fosse stata una docente che interviene in un Collegio, Murgia sarebbe stata subito emarginata e richiamata all’ordine da qualche zelante dirigente ventriloquo del Ministero. Inutile prendersi per i fondelli e sognare libertà dove non c’è.

In conclusione, prima di inneggiare alla libertà ci si chieda che cosa vuol dire essere realmente liberi e si sia capaci di riconoscere che la libertà di tutti è molto ridotta, ed i coraggiosi alla Pasolini, alla Saviano e alla Murgia (senza scomodare Gesù, Socrate o Gandhi) si contano sulle dita di una mano. Tutte e tutti commossi al funerale di Murgia e poi tutti a casuccia col cagnolino in salotto, il maritino che nessuna mi deve toccare ed i figli, se ci sono, attorno al focolare domestico, meglio se frequentano ragazzi “sistemati”. Essere donne come Murgia non è facile. Occorre molta ascesi, molto lavoro su se stesse, molte scelte coraggiose, poca comfort zone. Appunto, molta libertà. Cose serie.  

Tracce d’Esame: non sto nel coro

La platea degli oppositori all’attuale governo tuona scandalizzata dai media e dai social per le tracce d’esame di prima prova proposte agli studenti. Se ne sono lette di tutti i colori, si sono viste vesti stracciate e si è gridato allo scandalo. Ho letto e riletto le tracce più volte, le ho pure commentate pubblicamente a richiesta della rivista del CIDI Insegnare, ma al frastuono generale non riesco ad unirmi per quanto desideri farlo perché anche a me questo governo e questo ministero non piacciono. E non ne faccio mistero pubblicamente. Ma qualcosa mi rende impossibile imbracciare anche la mia lancia con le altre: si chiama onestà intellettuale. Cioè non volere venir meno all’intelligenza incondizionata.

Dai loro siti gli studenti si sono altresì lamentati. Ma non ci hanno messo niente di quel che invece gli adulti hanno messo. Hanno solo rilevato che non si aspettavano quelle tracce, senza scomodare ideologie, maschilismi, passatismi, arcaismi e altro armamentario di cui si è letto. Hanno persino dichiarato che quelle tracce rispetterebbero le Indicazioni Nazionali (Quasimodo, Moravia), ma quegli autori a scuola magari non si trattano. Rilievi didattici, non politici.

Si è rilevato che solo uno su dieci sarebbe stato in grado di fare tutte le tracce. E che c’è di strano? Quando mai è stato diverso? Le tracce sono sette perché si scelga, e si scarta proprio ciò che non ci si sente in grado di fare. Perché non calcolare invece quanti studenti non avrebbero saputo farne alcuna? A vedere le percentuali non pare che gli studenti si siano concentrati solo su una o due.

Diverse colleghe e colleghi, non militanti, non politicizzati forse, mi hanno scritto che dal loro punto di vista si trattava di tracce praticabili. Forse si tratta di una platea silenziosa incapace di cogliere le diavolerie ideologiche dei tecnici ministeriali. Dico la verità: mi piace far parte di questa platea. Chiamatemi ingenuo. Io ho visto essenzialmente quattro cose:

  1. Il ridicolo della traccia C1 con la lettera degli intellettuali a Bianchi. Bastava ignorarla. Ma tutti questi difensori di Bianchi al tempo di Bianchi non si erano visti. Anzi.
  2. La sorpresa positiva del concetto di nazione di Chabod, decisamente più evoluto rispetto a quello del governo. La nazione non è fine a se stessa. L’Europa e l’Umanità sono il suo orizzonte di riferimento. Meloni?
  3. L’altra sorpresa positiva dell’utilizzo di un articolo di Repubblica, che non mi pare sostenga questo governo.
  4. L’innocenza sostanziale delle altre tracce, che potevano prestarsi a trattazioni banali o intelligenti. In tutte c’era campo di esibire intelligenza, cultura e capacità di scrittura. Non mi pare che Piero Angela fosse un intellettuale di destra e che scrivesse fregnacce, e non mi pare che la Fallaci, che invece con la destra qualche rapporto l’aveva, volesse in quel testo fare apologia di totalitarismi di destra. Senza considerare Moravia, che militò nel PCI.

Insomma, qualcosa, quando vedo l’indignazione delle mie compagne e compagni di sinistra, non mi torna. Nell’insieme non ho visto quest’anno insulsaggini superiori a quelle che ho visto in tutti questi anni, in cui nelle tracce c’era di tutto e di più, e non erano soltanto governi di destra.

Di più: chi qui scrive ha tuonato davvero quando è venuta fuori la madre delle insulsaggini, cioè il colloquio sancito dalla nuova formula di esame (2018-2019, dlgs 62/2017) che bandiva la terza prova e creava lo spezzatino nientologico condito da improbabili documenti misteriosi da commentare e collegamenti patetici tra gli argomenti trattati. Il tutto per autorizzare nelle programmazioni coordinate il delirio delle tematiche trasversali, sedativo che non fa avvertire a molti il dolore delle proprie carenze disciplinari. Per scippare dalle mani degli studenti la tesina sono spuntate le buste, l’elaborato introduttivo e altra materia risibile. Di urla se ne sono viste poche: governi di marca PD. O Fedeli/Gentiloni stavano a destra?

Noi insegniamo ai nostri ragazzi la cittadinanza, la laicità e l’argomentazione. Significa criticare senza risparmio laddove un’evidenza si impone al nostro punto di vista come becera (vedi educazione civica, tutor, voti numerici e altre facezie). Ma non significa aspettare al varco l’avversario e colpire qualsiasi cosa dica o faccia. Non è un buon viatico educativo, perché rende le vacche tutte nere come di notte.

Il CIDI di Palermo festeggia la didattica

Ieri il CIDI di Palermo, presso l’IC “Rita Borsellino”, ha realizzato la sua annuale giornata del curricolo. Tante e tanti docenti si sono presentati per raccontare le loro esperienze didattiche o per ascoltarle. Coinvolto ogni ordine e grado di studi e ogni area del sapere. Un pomeriggio pieno di spunti, riflessioni, condivisioni. Ne verrebbe fuori un libro, se si radunasse l’immensa ricchezza prodotta. Le sessioni parallele, coordinate da Agata Gueli, Luigi Menna e Viviana Conti, sono state precedute da due interventi-cornice di Caterina Gammaldi e Maurizio Muraglia. Hanno introdotto i lavori la presidente nazionale Valentina Chinnici e la presidente del CIDI di Palermo Daniela Sortino. Accoglienza perfetta della scuola e della sua DS Lucia Sorce.

E’ stata davvero la festa della didattica vera e viva.

Montanari è competente ma detesta la competenza…

A Palermo ieri tanti di noi, grazie ai fratelli editori Palumbo, hanno avuto il privilegio di ascoltare Tomaso Montanari e Pietro Cataldi su un tema di grande fascino, l’educazione sentimentale e la vita interiore tra arte e letteratura. Davvero si è trattato di un evento capace di suscitare tante riflessioni, soprattutto tra chi ha compiti educativi e di insegnamento a scuola, e tanti ce n’erano a Palazzo Steri. Montanari e Cataldi magnifici. Profondi. Coinvolgenti.

Montanari è un grande esperto d’arte. E Cataldi di letteratura. Nessuno avrebbe avuto dubbi in sala a definire entrambi due persone competenti. Senza virgolette. Competenti. Ciascuno di loro parlava di ciò che conosceva e padroneggiava. Di più: ne parlava in modo coinvolgente. Questo è avvenuto perché hanno costruito nel tempo una competenza almeno ternaria: disciplinare, culturale, comunicativa.

Ma Montanari non se n’è accorto. Appena ne ha avuto la possibilità ha cominciato a rifriggere la solita frittata delle competenze al servizio del capitale umano, delle competenze nemiche delle conoscenze, delle competenze misurabili e di tutto quel repertorio di luoghi comuni già somministratoci nel tempo da coloro che si indignerebbero certamente se qualche pedagogista o qualche insegnante si mettesse a discettare di psicanalisi o di filosofia. Eppure la filiera dei Morelli, dei Recalcati e dei Galimberti adesso annovera anche il professor Montanari. Finita la spiritualità, l’arte e la cultura, è iniziata la paccottiglia dell’accademia che discetta di apprendimento scolastico davanti a docenti osannanti. Un assist involontario ovviamente a coloro, tra i presenti, che sono orientati alla cultura disinteressata e “contemplativa” (che nelle classi scolastiche vuol dire astratta e pedante). Cioè proprio coloro a cui i due relatori non erano interessati a rivolgersi. Eterogenesi dei fini.

Giustamente Montanari lamenta l’attitudine a confinare gli esperti che trattano di politica e cittadinanza nel chiuso delle proprie discipline. Ma l’esperto che esonda deve anch’egli avere una sua deontologia intellettuale. Se no finisce a dilettantismo. Dunque, piuttosto che chiedere a chi ne sa più di lui – come farebbe chi ne sa meno di lui di storia dell’arte – quale accezione assume il concetto di competenza in ambito pedagogico e culturale – e magari anche tentare una via per cambiare nomen ad una res che però lui possiede e tutti ci auguriamo che gli alunni possiedano – egli invita i docenti addirittura all’obiezione di coscienza. Che ci vorrebbe davvero, ma non verso le competenze, bensì verso la burocrazia inutile, la medicalizzazione del disagio scolastico, la messinscena dell’ educazione civica a 33 ore e dei tutor orientativi a 30 ore. Per fortuna, quando egli era studente, i suoi docenti non fecero obiezione di coscienza sulle competenze. E costruirono la sua, di competenza. Che mi porterà in libreria a comprare il suo ultimo libro sull’arte.

Ma qualcuno la democrazia nelle scuole l’ha vista?

Non c’è niente di più complicato che praticare la resistenza in tempi di libertà. A me il 25 aprile fa pensare questo. È vero, come diceva Troisi, a proposito del Miracolo: c’è Liberazione e liberazione. Ma pensare alla seconda non è anche un buon modo per celebrare la prima? E in che misura la scuola è coinvolta in questo discorso? Rileggendo in questi giorni per l’ennesima volta la Lettera a una professoressa degli allievi di don Milani, la cui nascita risale a cento anni fa, ho rivisto quanto quel testo trasuda di resistenza e di desiderio di liberazione. Eppure nel 1967 non c’era più la dittatura. Qualcosa non torna? Si può quindi parlare di resistenza in tempi di libertà?

Michele Serra chiamava il suo “Cuore” settimanale di resistenza umana. Ecco, resistenza umana. La scuola di oggi sembra avere dimenticato la resistenza umana forse perché non si accorge più di quel che accade. Prendiamo le ultime sparate ministeriali, di un Ministero appartenente ad una libera Repubblica democratica. Finita la sbornia del 25 aprile tutte le scuole torneranno ad adoperarsi per trovare i docenti orientatori e i docenti tutor. Difficile immaginare che all’interno delle scuole si sia avviata una riflessione collegiale sul significato di questa novità. Nelle scuole non si discute più ormai. Si esegue. Altro che resistenza e liberazione. Qui manca il prerequisito di entrambe: la libera discussione democratica.

La vicenda dell’Educazione civica e del docente tutor sono esemplari. I dirigenti scolastici, che pure in molti casi sono figure di gran spessore intellettuale e civile, non hanno altra chance che essere mere cinghie di trasmissione nel veicolare le decisioni ministeriali a Collegi che le recepiscono senza discutere. Al più, si adoperano per favorire ricezioni intelligenti dell’Insensatezza. Ma nella sostanza il sistema è feudale, dal ministro ai direttori regionali con i loro dirigenti tecnici comandati che producono slides e visite ispettive, ai dirigenti scolastici, per finire ai docenti, proletariato intellettuale esecutore. Dov’è la libertà? Quando all’interno di un Collegio qualcuno tenta di avviare una discussione nel merito di una misura ministeriale scatta la clessidra. Quando non peggio. Nelle sale professori idem. Il desiderio comune è quello di star quieti. La maggior parte dei docenti non ha voglia di ragionare su ciò che “si deve fare”. Nella fattispecie, la questione del tutor è soltanto un adempimento. Occorre soltanto trovare le disponibilità. È uscita la circolare con la masticazione del decreto ministeriale fatta dal dirigente. Cosa vuoi discutere.

Cosa poi debba fare un tutor non è chiaro a nessuno. E non sorprende. Perché in realtà non è chiaro cosa si debba fare per “orientare”. Ogni alunno, nel momento in cui mette piede in un’aula scolastica, deve studiare insieme ad altri compagni. Si trova davanti insegnanti e saperi scolastici. E deve capire qual è la sua via. Per la verità, fino alla terza media c’è poco da capire la via. Tutti insieme appassionatamente. La questione si pone alla fine del primo ciclo ed ha a che fare, ancora, con i saperi e con le capacità che l’allievo va acquisendo. Dunque con gli insegnanti di quell’allievo, che si riuniscono periodicamente per fare il punto sulla situazione degli apprendimenti. Sono essi che intrattengono un rapporto “orientativo” con l’allievo. Sulla base dei saperi, di fronte ai quali ogni allievo misura le proprie inclinazioni favorevoli. Oppure il proprio odio. A seconda di chi va in cattedra. Le famiglie c’entrano molto poco. Non sono addette ai lavori, lo diventano quando chi lo dovrebbe essere non è all’altezza. Sanno tutti che basta insegnare con serietà e competenza, rendendo operativo e vitale il rapporto con i saperi, perché l’allievo non si senta “disorientato”. Lo sanno anche al Ministero. Ma arrivano soldi. E vanno spesi. Un po’ di prosopopea e di paccottiglia pedagogica di contorno ed ecco il tutor bell’e fatto.

Si dice che la scuola sia maestra di democrazia ma è solo retorica, perché non esistono le condizioni per insegnarla o praticarla in classe, e non esistono perché chi non la pratica non la può insegnare. Ancora il voto di condotta si abbassa se l’allievo è impertinente e la dice sul muso al docente. La rivalsa. Altro che 25 aprile.  

Insomma, mai come in quest’epoca la democrazia interna alle scuole ha toccato il fondo. Mai come in quest’epoca è assente ogni forma di resistenza di fronte a misure insensate, incompetenti, inessenziali. Le ultime significative obiezioni di coscienza interne alle scuole risalgono al portfolio del 2004 e al bonus premiale del 2015. L’uno e l’altro infatti sono stati affossati in virtù di prese di posizioni forti. Questioni educative di grande portata, quali l’inclusione, il merito, la cittadinanza o l’orientamento, sono ridotte a certificazioni da compilare per sedare le famiglie oppure a numero di ore da dichiarare, 33 di educazione civica, 30 di orientamento. Banalità pedagogiche. L’educazione ridotta a Burocrazia ed Adempimento. Altro che festa della Liberazione. Questa è la festa della Sudditanza. Nessuna Greta Thunberg della scuola all’orizzonte. Si naviga a vista. Buon 25 aprile.

Dante per gli studenti dei “Classici in strada”

Maurizio Muraglia, Laura Mollica e Anna Cannizzo

Lo scorso 9 marzo, nell’aula magna del Liceo “De Cosmi” di Palermo, nell’ambito dell’iniziativa “Classici in strada” che coinvolge una rete di scuole, ho incontrato gli studenti di quella scuola in presenza, ma anche gli studenti della rete in remoto, per affrontare il tema dei fiumi nella Divina Commedia col prezioso supporto iconografico della collega Laura Mollica, moderatrice dell’evento e coautrice con me del testo “Dante parla ancora?” edito nel 2021 da Di Girolamo. Riassumo qui il contributo offerto alle ragazze e ai ragazzi di quella scuola.

All’interno della Commedia è presente tanta geografia fisica, ovviamente per quel che riguarda l’Inferno e il Purgatorio. Si tratta di una geografia dell’anima, per la quale i singoli elementi si configurano in relazione a dimensioni esistenziali che il poeta vuole via via mettere in luce. Il fiume rimanda certamente al dinamismo della vita umana, con il suo scorrere placido o strozzato, col suo straripare o inaridirsi o ancora ghiacciarsi.

Quattro sono i fiumi infernali: Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito.

L’Acheronte è il fiume che evoca la transizione da una condizione ad un’altra. Per Dante, che non è ancora morto, si tratta del passaggio dalla vita ordinaria all’inferno propriamente detto, che è inferno dell’animo, scavo tra le proprie fragilità, contraddizioni, criticità. Passaggio difficile, che richiede volontà e coraggio, ma che Dante effettua in modo inconscio, perché egli non salirà mai sulla barca di Caronte con le altre anime, ma si ritroverà “guadato” inconsapevolmente. Infatti il testo evoca un vero e proprio terremoto che determina lo svenimento del viaggiatore ed il suo ritrovarsi sull’altra riva del fiume senza accorgersene.

Lo Stige è vera e propria palude fangosa, che vede iracondi e accidiosi immersi in una pozza lurida. I primi si dilaniano vicendevolmente, mentre i secondi risultano sommersi dal fango e riescono appena a farfugliare qualcosa facendo gorgogliare la palude. Sono vite che ristagnano in modo putrido, vite avvelenate dall’ira esplosa e dall’ira implosa. Sono vite degradate, che non riescono più a “scorrere” e restano impaludate in un’acredine eterna, senza respiro. Vite paralizzate.

Il Flegetonte è il fiume che scorre ribollendo di sangue, metafora dell’animalità cui si riducono i violenti. Violenti contro il prossimo, contro se stessi e contro Dio. Il Flegetonte, col suo sangue, avvolge tutte le violenze di cui è capace l’uomo.

La vita che non scorre più perché è cristalizzata nel ghiaccio è rappresentata dal Cocito, il fiume-lago di ghiaccio in cui sono sommersi i traditori. Per Dante tradire è come cessare di vivere, immobilizzare l’anima in uno stato di gelo permanente, reso tale peraltro dal continuo battito d’ali dell’enorme Lucifero conficcato al centro della terra.

Il Purgatorio ha due fiumi, entrambi provenienti da una sorgente divina: il Lete e l’Eunoé. Dante si immerge in essi nel Paradiso terrestre perché la sua purificazione e disposizione a salire alle stelle avvenga con un doppio passaggio, l’oblio dei propri peccati, col superamento del senso di colpa, e la memoria del bene compiuto. Dante ha attraversato gli inferni della propria anima imbattendosi nei fiumi infernali, che, al contrario di quelli purgatoriali, erano tutti originati dalle lacrime del Veglio di Creta, come spiega il maestro Virgilio.

I fiumi del Purgatorio sono necessari per restituire a Dante la piena umanità, tant’è vero che dopo l’immersione, quasi battesimale, nel Lete, Dante è consegnato a quattro fanciulle danzanti che rappresentano le quattro virtù cardinali, ovvero il requisito della piena umanità.

Dalla metafora del fiume non è esente neppure il Paradiso, che verso la sua conclusione pone davanti ai lettori la fiumana di luce che approda alla candida rosa, luogo della festa di tutti i beati.

Dai fiumi di fango o sangue al fiume di luce, il rapporto di Dante con i fiumi si configura quale rapporto con le varie sfaccettature della vita umana. L’Acheronte rappresentava il doloroso transito verso l’abisso del proprio dolore, mentre il fiume paradisiaco rappresenterà la capacità di Dante di sapere contemplare la bellezza.