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Montanari è competente ma detesta la competenza…

A Palermo ieri tanti di noi, grazie ai fratelli editori Palumbo, hanno avuto il privilegio di ascoltare Tomaso Montanari e Pietro Cataldi su un tema di grande fascino, l’educazione sentimentale e la vita interiore tra arte e letteratura. Davvero si è trattato di un evento capace di suscitare tante riflessioni, soprattutto tra chi ha compiti educativi e di insegnamento a scuola, e tanti ce n’erano a Palazzo Steri. Montanari e Cataldi magnifici. Profondi. Coinvolgenti.

Montanari è un grande esperto d’arte. E Cataldi di letteratura. Nessuno avrebbe avuto dubbi in sala a definire entrambi due persone competenti. Senza virgolette. Competenti. Ciascuno di loro parlava di ciò che conosceva e padroneggiava. Di più: ne parlava in modo coinvolgente. Questo è avvenuto perché hanno costruito nel tempo una competenza almeno ternaria: disciplinare, culturale, comunicativa.

Ma Montanari non se n’è accorto. Appena ne ha avuto la possibilità ha cominciato a rifriggere la solita frittata delle competenze al servizio del capitale umano, delle competenze nemiche delle conoscenze, delle competenze misurabili e di tutto quel repertorio di luoghi comuni già somministratoci nel tempo da coloro che si indignerebbero certamente se qualche pedagogista o qualche insegnante si mettesse a discettare di psicanalisi o di filosofia. Eppure la filiera dei Morelli, dei Recalcati e dei Galimberti adesso annovera anche il professor Montanari. Finita la spiritualità, l’arte e la cultura, è iniziata la paccottiglia dell’accademia che discetta di apprendimento scolastico davanti a docenti osannanti. Un assist involontario ovviamente a coloro, tra i presenti, che sono orientati alla cultura disinteressata e “contemplativa” (che nelle classi scolastiche vuol dire astratta e pedante). Cioè proprio coloro a cui i due relatori non erano interessati a rivolgersi. Eterogenesi dei fini.

Giustamente Montanari lamenta l’attitudine a confinare gli esperti che trattano di politica e cittadinanza nel chiuso delle proprie discipline. Ma l’esperto che esonda deve anch’egli avere una sua deontologia intellettuale. Se no finisce a dilettantismo. Dunque, piuttosto che chiedere a chi ne sa più di lui – come farebbe chi ne sa meno di lui di storia dell’arte – quale accezione assume il concetto di competenza in ambito pedagogico e culturale – e magari anche tentare una via per cambiare nomen ad una res che però lui possiede e tutti ci auguriamo che gli alunni possiedano – egli invita i docenti addirittura all’obiezione di coscienza. Che ci vorrebbe davvero, ma non verso le competenze, bensì verso la burocrazia inutile, la medicalizzazione del disagio scolastico, la messinscena dell’ educazione civica a 33 ore e dei tutor orientativi a 30 ore. Per fortuna, quando egli era studente, i suoi docenti non fecero obiezione di coscienza sulle competenze. E costruirono la sua, di competenza. Che mi porterà in libreria a comprare il suo ultimo libro sull’arte.

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Gramellini, non prendere troppi caffè….

“Poche notizie mi rendono pessimista sul futuro come la caduta inarrestabile delle iscrizioni al liceo classico: il prossimo anno lo frequenterà appena il 5,8% degli alunni di terza media che proseguiranno gli studi. Il classico non è nello spirito del tempo, secondo cui la scuola serve solo a trovare lavoro. E poiché si pensa che il mondo di domani avrà più bisogno di tecnici che di umanisti, studiare l’Iliade sembra a molti una perdita di tempo. Avrei parecchio da obiettare su questo punto (fior di economisti e ingegneri provengono dal classico), ma prendiamolo per buono. Però non fin dall’adolescenza, dai.

A quattordici anni nessuno sa ancora chi è: invece di restringergli il campo, bisogna allargarglielo a dismisura. Tutte le passioni della mia vita le ho assaggiate a quell’età, comprese la musica e lo sport, di cui leggevo le cronache sotto il banco durante le lezioni più noiose. Ma erano le cronache di Gianni Brera, uno che sapeva coniugare il racconto della partita con l’epica di Omero. È vero, il classico non ti spiega «come» funziona il mondo, ma in compenso ti abitua a chiederti «perché». A capire le cause delle cose, a snasare il conformismo degli anticonformisti, ad addestrare i sensi e la mente per riuscire a cogliere la bellezza in un tramonto o anche solo in una vetrina. Il classico è come la cyclette: mentre ci stai sopra, fai fatica e ti sembra che non porti da nessuna parte. Ma quando scendi, scopri che ti ha fornito i muscoli per andare dappertutto.”

(Gramellini, Il Caffè, Corriere dell’1 febbraio)

La noia che mi assale non viene da Gramellini, ma dalla retorica nostalgica che fa scaturire. Ho fatto il liceo classico, mi sono laureato in lettere classiche e insegno al liceo classico dopo aver insegnato in quasi tutti gli altri indirizzi. Uscendo dal classico mi sono sentito fortissimo in alcune materie, un vero demente in altre. All’università ho dovuto studiare di sana pianta materie che oggi insegno. Perché al liceo su queste materie ho ottenuto zero. Dai miei studi passati e recenti, dalla mia esperienza in classe passata e presente e da quello che ho osservato negli ultimi 40 anni ho ricavato che ci sono due stoltezze, una presunta ed una sicura: la prima sarebbe abolire il liceo classico (ma non so chi lo stia facendo, Gramellini lo deduce abusivamente dal calo di iscrizioni); l’altra sarebbe che è la scuola migliore, come vorrebbe il codazzo di ammiratrici e ammiratori che fa girare la geremiade del signor Gramellini. Non c’è bisogno di essere Maurizio Bettini, uno dei massimi classicisti viventi, per evitare la trita mitologia della classicità – che gronda sangue, violenza, ingiustizia, pregiudizio e discriminazione in modo non dissimile da tutte le altre epoche – o Raffaele Simone, uno dei massimi linguisti viventi, per evitare la trita mitologia delle lingue “logiche” (che un minimo di competenze in linguistica dovrebbe far ritenere un’assurdità). Proprio le mitologie, le pedanterie e le nostalgie ingenue accelerano la caduta in picchiata del liceo classico.

Basterebbe invece soltanto il buon senso di capire che ci sono alunni usciti dal classico che riescono bene ed altri che riescono male. La differenza non la fa la patetica convinzione che i secondi “non sono portati”, ma la più elementare constatazione che non hanno avuto docenti all’altezza. E se un docente non è all’altezza – come si è visto, si vede e si vedrà al classico e altrove – c’è poco da mitizzare. E poi occorrerebbe evitare di offendere tutte le alunne e gli alunni che il classico non lo fanno e che sono fior di intelligenze. L’Italia non potrebbe reggersi con i soli allievi usciti dal classico, e men che meno con gli ancora numericamente inferiori che hanno avuto la fortuna di non venir fuori da docenti incapaci, inesperti o cambiati ogni anno.

Se ne ricordassero Gramellini e i gramellinidi che spopolano sui social. Facciano un bel sondaggio tra le ragazze e i ragazzi usciti dal classico e soprattutto stiano nella realtà piuttosto che nella fiction.

Tanto belli quanto inutili

Alcuni anni fa ci provò Recalcati, col suo erotico “L’ora di lezione”. Grande successo. L’uomo sa scrivere. Quest’anno ci ha rimesso mano Zagrebelsky, col suo “La lezione”. Entrambi, of course, non sono insegnanti di scuola. Nel suo, l’insigne giurista esemplifica sempre pensando ai suoi studenti universitari. Anche il suo libro si fa apprezzare. Scritto bene, con passione e cultura. Sono libri che contengono cose belle, ma è difficile che a leggerli sia il lettore implicito da essi presupposto, cioè chi fa tutt’altro in classe. Chi non fa per niente le cose scritte in quei due libri non ha motivo di leggerli, e se li leggesse non saprebbe di che parlano. Quindi sono libri sostanzialmente inutili, perché confermativi presso coloro che poi realmente li leggono. Cioè sono esteticamente utili, ma non spostano una virgola.

Non spostano una virgola perché non mutano il dosaggio tra chi cerca di rendere la lezione un evento della mente, o dantescamente dell’emozione intellettuale se si vuole, e chi, pur volendo fare lo stesso, non sa farlo, o se sa farlo non lo fa perché il burocrate che è in lei o in lui prevale. Questa seconda antropologia docente è quella più diffusa, e pertanto la referente principe delle sparate ministeriali. Asfaltata dal sistema tecnocratico che assume la veste del concorso a cattedra quizzologico e nozionistico, di qualche dirigente ansiogeno più realista del re, del registro elettronico idiota che propone mezzi e quarti di voto, di famiglie legate a ricordi da libro Cuore che sfornano ulteriori banalità da bar quando discutono di scuola, di una cultura valutativa demenziale tutta intrisa di medie e percentuali in cui sguazzano gli illusi dell’ossimorica valutazione oggettiva e del migliorabile-solo-ciò-che-è-misurabile.

Sono libri che presuppongono che chi va in classe sia una donna libera o un uomo libero. Merce rara. Ma quando accade tutto è lezione, come provai qualche anno fa a raccontare qui, con ben più scarsa tiratura.

50 anni di CIDI. L’evento di Roma del 18 ottobre

Chi l’avrebbe mai detto?

In questi 19 minuti e 15 secondi il presidente dell’Invalsi Roberto Ricci, persona garbata e amabile, ci dice delle cose che ritengo necessario appendere permanentemente in cucina per tenerle a mente. Ne isolo tre, ma è bene guardare tutto il video.

Primo. L’Invalsi ha compiti esclusivi di monitoraggio del sistema. Per cambiarlo occorre il decisore politico. Aspettiamolo.

Secondo. I risultati negativi al Sud dipendono da “un contesto sfavorevole all’apprendimento” che ha “opportunità culturali minori”. Non ci avevamo fatto caso.

Terzo. Se le scuole “eliminano o riducono” il peso del contesto sui dati possono individuare quella parte che dipende strettamente da esse. Individuando il 20-25 per cento dipendente da esse “cominciamo da domani”. A fare che, non ce lo dice. E come si fa a separare il peso del contesto dal peso della scuola, neppure. Si accettano scommesse.

Alla fine Reginaldo Palermo, prefigurando il momento in cui il dott. Ricci andrà in pensione, poiché questi si è autocompreso come uno che sta sempre “sulla fune”, immagina che potrà dire “finalmente sono tornato con i piedi sulla terra”. Sublime.

Il gioco delle tre didattiche

LIVELLIDIP*DIMDAD
RELAZIONI PERSONALI210
COMUNICAZIONE ORALE211
COMUNICAZIONE SCRITTA221
QUALITA’ E DURATA SPIEGAZIONI DOCENTE211
PSICOFISICO STUDENTI210
PSICOFISICO DOCENTE211
COOPERAZIONE STUDENTI210
DIBATTITO IN CLASSE211
UTILIZZO DIGITALE122
INNOVAZIONE DIDATTICA112
INCLUSIONE SVANTAGGI210
SICUREZZA CONTAGIO212
TOTALE22/2414/2411/24

*Si intende in assenza di pandemia

Legenda:

2 – Buono / 1 – Sufficiente / 0 – Scarso

DIP – Didattica in Presenza

DIM – Didattica in Mascherina

DAD – Didattica a Distanza

VALUTAZIONE

Nel raffronto tra le didattiche mi appare nettamente preferibile la Didattica in Presenza in condizioni normali, senza distanziamenti e mascherine, che in questa fase è impossibile. Nel raffronto tra le due altre didattiche oggi possibili, cioè la DIM e la DAD, l’esperienza condensata nella tabella mi porta a ritenere che la Didattica in Mascherina superi la Didattica a Distanza di una misura nettamente inferiore a quanto invece la separa dalla Didattica in Presenza. Il che porta a ritenere che, con l’aumento del rischio e con una decisa disponibilità a mettere da parte ossessioni valutative e fissazioni enciclopediche, per periodi circoscritti la DAD sia preferibile alla DIM. Anche per fare rientrare sia pur temporaneamente nella didattica il sorriso, che per alcuni docenti è inessenziale perché non sanno ridere e non hanno motivi per ridere e soprattutto far ridere.

Per eventuali approfondimenti sulla Didattica in Mascherina rimando al mio intervento sulla rivista del CIDI Insegnare.

A chi la racconterete?

LA REPUBBLICA ED. DI PALERMO DEL 31.7.2021

Uno zainetto estivo per i docenti

Nelle ultime settimane si è assistito al ritorno di un genere di discorso che sembrava ormai soppiantato dalla permanente attenzione a graduatorie, concorsi, punteggi, mobilità, insomma a tutto il versante (importantissimo, per carità) che pensa la scuola come un posto di lavoro. Il genere “Idea di scuola” sembrava affidato soltanto a qualche pensatore che si attarda sui cosiddetti massimi sistemi. Ma da Massimo Baldacci a Mario Ambel proviene in questi giorni un forte stimolo a pensare la scuola, in omaggio al principio che nessuna prassi e nessuna organizzazione acquistano significato se non in riferimento ad un quadro valoriale di riferimento. Gli stessi recenti discorsi sulla valutazione, al di fuori di un’opzione di fondo sull’educare, sull’ insegnare, sull’ apprendere e sul relazionarsi con gli allievi, rischiano di approdare alla solita fornitura di strumenti operativi, che operano come opererebbero le posate di chi non sa cosa vuole o deve mangiare.

Per questo invito a dedicare del tempo ad ascoltare Baldacci (il cui intervento di altissimo profilo compare anche sull’ultimo numero di Micromega) e leggere Ambel (e la rivista che dirige). Per elevare il tenore della chiacchiera scolastica e non rimanere schiacciati tra l’empatia epistolare ministeriale dei grazie-a-tutti-gli-alunni-e-a-tutti-i-docenti e la tecnocrazia degli apparati vocati periodicamente a misurare la temperatura del moribondo per monitorare il sistema.

Dovesse poi esserci in giro ancora qualcuno che vuol dare sostanza ai discorsi sulla valutazione cosiddetta formativa (l’aggettivo con tutta evidenza è pleonastico e induce il sospetto che la valutazione possa essere qualcos’altro….) suggerisco una lettura…formativa.

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