L’eterno Ugolino

Nel Dantedì del 2024, il Palazzo del Poeta di Palermo, sede prestigiosa di eventi culturali, ha ospitato l’evento progettato da Laura Mollica, chi qui scrive e Marco Pavone, che hanno riproposto il trentatreesimo canto dell’Inferno, il canto della tragedia del Conte Ugolino. La vicenda del nobile pisano, incarcerato a tradimento e fatto morire di fame con due figli e due nipoti, ha dato spunto per riflettere sull’odio politico capace della più feroce disumanità. Chi qui scrive ha introdotto offrendo ai presenti la cornice storica e letteraria in cui si inserisce il testo dantesco con l’ausilio di immagini tratte dall’iconografia dantesca, predisposte da Laura Mollica. A seguire Mollica ha presentato una significativa rassegna dei contributi offerti dall’arte, nel tempo, alla vicenda di Ugolino, collocato da Dante nel nono cerchio tra i traditori della patria insieme all’arcivescovo Ruggieri suo carnefice, di cui divora eternamente il cranio. Laura Mollica ha poi eseguito alla fisarmonica un’aria di Bach preparando la transizione alla parte più strettamente poetica, curata da Marco Pavone, che prima ha fornito preziose suggestioni di prosodia dantesca e poi ha splendidamente declamato il canto con un suggestivo sottofondo di Gorecki, ripreso, a conclusione, dalla deliziosa fisarmonica di Laura Mollica. Un approccio multimodale che ha permesso ai presenti di rivivere la vicenda narrata da Dante e di riflettere su quanto attuale possa risultare un brano che mette eternamente in scena la crudeltà umana prodotta da ideologie che mascherano istinti brutali di vendetta. L’evento è stato reso possibile dalla impeccabile organizzazione di Rosa Di Stefano. Qui di seguito alcune foto realizzate da Stella Verde.

State buoni se potete (politically correct)

Che idea diffusa c’è sul “manifestare”, sul “dissentire”? Può esserci spazio per un politicamente corretto del manifestare? Certo ci sono delle regole cui nessuno può venir meno. Da un lato. Dall’altro c’è che l’indignarsi, a meno che non sia una buffonata, presuppone rabbia, sdegno, voglia di cambiare le cose.

Quanto ci si lamenta dell’apatia dei nostri ragazzi? Non si indignano per niente, sono indifferenti, sono abbarbicati al cellulare. Ma il mondo degli adulti davvero si lamenta di questo oppure sotto sotto lo benedice? La discussione dei docenti al momento del voto di condotta sembra esemplare. L’alunno che dissente dal modo di insegnare del docente difficilmente avrà “dieci”. Di più: c’è anche l’alunno un po’ “vivace” che paga pegno e magari si prende il suo “nove”, se non “otto”, perché ha subito qualche nota.

Siamo davvero convinti di desiderare alunni capaci di “esagerare”, che è quella situazione in cui ci si trova quando si è incazzati? Oppure abbiamo tanta voglia di alunni buoni, ubbidienti, diligenti, che rompono il meno possibile? Di quale immaginario si nutrono i cittadini?

La verità è che la nostra educazione resta tutto sommato perbenista e normalizzatrice. Sono rari gli insegnanti che col monello discutono. Tanti ancora sanzionano. Convinti che la sanzione sia un rimedio alla monelleria, ammesso che questa sia tale. La sanzione punitiva a scuola è legittima? Senza dubbio. Ma il criterio di legittimità sul piano educativo non sempre è il criterio vincente. Perché poi dietro presunte legittimità si nasconde il manganello.

Nell’immaginario educativo non ha ancora trovato posto un’idea di educazione dialogica, capace anche di rischiare che la monelleria abbia il sopravvento pur di mantenere la relazione. Insomma un’educazione non violenta.

State buoni se potete

I ragazzi manifestanti subiscono manganellate dalle forze dell’ordine. Indignazione generalizzata, persino dal Quirinale. Sacrosanta. Però occorre fare un passo ulteriore. Che idea diffusa c’è sul “manifestare”, sul “dissentire”? Può esserci spazio per un politicamente corretto del manifestare? Certo ci sono delle regole cui nessuno può venir meno. Da un lato. Dall’altro c’è che l’indignarsi, a meno che non sia una buffonata, presuppone rabbia, sdegno, voglia di cambiare le cose.

Quanto ci si lamenta dell’apatia dei nostri ragazzi? Non si indignano per niente, sono indifferenti, sono abbarbicati al cellulare. Ma il mondo degli adulti davvero si lamenta di questo oppure sotto sotto lo benedice? La discussione dei docenti al momento del voto di condotta sembra esemplare. L’alunno che dissente dal modo di insegnare del docente difficilmente avrà “dieci”. Di più: c’è anche l’alunno un po’ “vivace” che paga pegno e magari si prende il suo “nove”, se non “otto”, perché ha subito qualche nota.

Siamo davvero convinti di desiderare alunni capaci di “esagerare”, che è quella situazione in cui ci si trova quando si è incazzati? Oppure abbiamo tanta voglia di alunni buoni, ubbidienti, diligenti, che rompono il meno possibile? Di quale immaginario si nutrono anche i ragazzi delle forze dell’ordine, senza che necessariamente debbano avere avuto ordini dall’alto?

La verità è che la nostra educazione resta tutto sommato perbenista e normalizzatrice. Sono rari gli insegnanti che col monello discutono. Tanti ancora sanzionano. Convinti che la sanzione sia un rimedio alla monelleria, ammesso che questa sia tale. La sanzione punitiva a scuola è legittima? Senza dubbio. Ma il criterio di legittimità sul piano educativo non sempre è il criterio vincente. Perché poi dietro presunte legittimità (manifestazione non autorizzata ecc.) si nasconde il manganello.

Il poliziotto che manganella è figlio di un immaginario in cui non ha ancora trovato posto un’idea di educazione dialogica, capace anche di rischiare che la monelleria abbia il sopravvento pur di mantenere la relazione. Insomma un’educazione non violenta, quale magari i nostri giovani poliziotti non hanno ricevuto.

Mi curo con Dante

Tra tanti libri che riguardano Dante e che doverosamente si leggono, ogni tanto ne esce qualcuno che occorre leggere più di una volta, tanta è la profondità che trasuda dalle sue pagine. E’ il caso di questo “E d’ogni male mi guarisce un bel verso”, scritto da Fabio Stassi, pubblicato in questi giorni dalla palermitana editrice Sellerio e puntualmente segnalatomi dalla mia cooperatrice culturale Laura Mollica, fonte inesauribile di spunti, segnalazioni e stimoli interdisciplinari.

Davvero Stassi fa respirare, perché esce dal “mondo umbratile dei dantisti” (Contini) ed entra in quello spazio in cui tanti di noi, grandi e piccoli (come me) appassionati di Dante, desideriamo entrare, che è quello della meditazione esistenziale suscitata dai versi danteschi. L’ipotesi è quella del valore curativo della poesia dantesca, a partire proprio dal primo paziente da curare che è Dante stesso, rivisitato da Stassi e dai suoi riferimenti culturali nella sua strutturale fragilità psicologica ed esistenziale, riscattata dalla potenza pittorica (e musicale) dei suoi versi. Nella prosa di Stassi, Dante è in conversazione con scrittori che, avendolo studiato ed amato (Leopardi, Mandel’stam, Borges, Eliot, Pirandello, Ungaretti, Saba, Canetti, Caproni per citarne alcuni), riescono a offrirci chiavi di lettura a volte fulminanti e capaci di suscitare anche nei non addetti ai lavori il desiderio di saperne di più. Il culmine della forza di resistenza al dolore generata dal poeta fiorentino sta nella rievocazione fattane da Primo Levi nel celebre episodio di Pikolo, in Se questo è un uomo. Da qui merita trarre un exemplum: “Non c’è stata forse, nel nostro tempo, un’approssimazione all’inferno più universale di quella di Auschwitz, nessun allontanamento o esilio più riconosciuto dalla condizione umana. Quale eco avranno avuto, per Primo e per Pikolo, quei due versi, ‘fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza’? Perché è proprio nei luoghi più estremi, nei luoghi di pena e di detenzione, negli ospedali, nelle carceri, nei lager, che la poesia mostra tutto il suo sorprendente potere salvifico. Nei penitenziari dotati di una biblioteca, la percentuale dei suicidi cala drasticamente: un verso, anche un singolo verso, può salvare una vita, restituire l’umanità che si è smarrita o ci è stata tolta”. (pp.86-87)

Insomma, un libro come questo è davvero quel che serve ad uscire dal recinto talvolta asfittico degli specialisti. Ne consiglio la lettura non solo ai dantisti confinati nell’elitaria erudizione dantesca, ma a tutti coloro che hanno amato e amano Dante, inclusi ovviamente gli insegnanti, e non solo di Lettere, che hanno a cuore la poesia. “La scomparsa della poesia è un altro dei grandi cambiamenti climatici della nostra epoca, e come tutti i mutamenti in corso non è stato ancora indagato a fondo. Ma è alla base di tanti malanni, d’ogni genere, perché la poesia ha a che fare con la bellezza e con il piacere: del linguaggio, della parola, dell’amicizia. Per usare un termine dantesco, con i piaceri del convivio, dello stare bene insieme, nel modo corretto, e dunque con il ben essere, con la salute nel senso letterale di salvezza, con la Beatitudine. Dante ne era consapevole e lo scrive in un’altra lettera a Cangrande della Scala: il fine di tutta la Commedia ‘ consiste nell’allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità’. (pp.103-104)

40 ANNI DI CIDI A PALERMO

Ieri, 25 settembre del 2023, all’Istituto “Rita Borsellino” di Palermo, si sono festeggiati i 40 anni del CIDI di Palermo. L’ex presidente nazionale Domenico Chiesa ha ripercorso la storia cinquantennale del CIDI nazionale. A sentire il contributo ponderoso che il CIDI ha dato in mezzo secolo di politica scolastica, contribuendo a scrivere riforme, partecipando a commissioni ministeriali, fornendo a tutte le scuole contributi pedagogici di primo livello, ci si sarebbe aspettati una partecipazione straripante. Ma oggi i grandi numeri hanno altro a cui pensare. Eravamo una sessantina, duri e puri, ma felici. E’ stato un gran pomeriggio di festa. Il Direttore dell’USR Pierro ha compreso, lui sì, l’importanza di questo segno di ricerca e di pensiero a Palermo ed è venuto a trovarci. Un bel gesto. E poi tante figure della nostra storia, tante testimonianze, tanti ricordi, ma anche desiderio di essere ancora vivi e presenti. Un frutto del CIDI di Palermo è la presidente nazionale Valentina Chinnici ed un frutto del CIDI di Palermo la direttrice della rivista del CIDI Insegnare Gloria Calì. Il CIDI ha il difetto di pensare la scuola in profondità, dedicandosi al curricolo, ai saperi, alle discipline, alla cittadinanza culturale nel tempo delle educazioni affettivo-spiritual-sessuali, dei pastrocchi non cognitivi, degli orientatori in cerca di alunni disorientati e del volemose bene in classe. 40 anni controvento. Bene così.

Valentina Chinnici, la Dirigente Scolastica ospitante Lucia Sorce, Daniela Sortino e Domenico Chiesa
Daniela Sortino e il Direttore Generale dell’USR Sicilia Giuseppe Pierro
Domenico Chiesa presidente nazionale dal 2001 al 2006
Le quattro presidenze: Valentina Chinnici, Cristina Morrocchi, Maurizio Muraglia e Silvio Vitellaro
Mirella Pezzini, Daniela Sortino e Luigi Menna
Marilina Ajello, Agata Gueli, Daniela Sortino e Adriana Arcuri
Mariella Grecomoro Miraglia, Mariarosa Turrisi e Daniela Sortino
Le/i cinque presidenti del CIDI di Palermo Cristina Morrocchi (1983-2004), Maurizio Muraglia (2004-2012), Silvio Vitellaro (2012-2014), Valentina Chinnici (2014-2022), Daniela Sortino (attuale) con Domenico Chiesa
Il Direttivo del CIDI con la presidente nazionale Valentina Chinnici e Domenico Chiesa

Due città in una

L’immagine della ragazza condotta al Foro Italico e violentata dal branco – accade a Palermo qualche giorno fa –  fa rabbia. E alla rabbia si associa la sensazione di vivere in una città che in realtà sono due. Cos’hanno in comune i balordi stupratori che fanno la movida alla Vucciria con la Palermo acculturata che a pochi metri di distanza va al teatro Biondo? Cos’hanno in comune i criminali incendiari di Monte Pellegrino con i frequentatori delle conferenze che si tengono ai Cantieri Culturali alla Zisa? Ogni giorno vanno in scena due città che in comune non hanno niente perché i rispettivi sistemi politici, culturali ed educativi non si incontrano. Ogni giorno le due città convivono detestandosi, perché nessuno può negare che mentre la Palermo cosiddetta “bene” ha il problema di proteggersi da delinquenti di ogni ordine e grado (non esclusi figli di papà deviati), la platea di questi ultimi, portatrice di disagi mai risolti – e mai seriamente affrontati – si aggira per la città in cerca di espedienti, quando non di prede, per riempire il vuoto dell’esistenza.

Quando una ragazza viene violentata, un barbone viene ucciso, una montagna viene incendiata, una persona fragile viene maltrattata, un migrante insultato, una coppia di omosessuali discriminata, la città colta discute perché ha gli strumenti culturali per farlo. Proliferano a Palermo conferenze, dibattiti, articoli, sit-in in cui la città colta si indigna, riflette e approfondisce. Ogni giorno i social che ospitano gli acculturati discutono questioni serissime che riguardano proprio i nostri infami concittadini impegnati a distruggere la vita di qualche ragazza, vandalizzare scuole o far scempio di beni culturali e paesaggistici. Ma la città della cultura non li sfiora. Ma di che parlano questi? Di diritti umani, di ambiente, di discriminazione. Ma che sono ste cose?

A Palermo la pentola a pressione del disagio (sociale o esistenziale che sia) esplode tutte le volte in cui la voglia di sballo supera il confine della legalità e del rispetto umano, com’è avvenuto nel caso del branco di stupratori che ha agito nell’indifferenza generale. Ha fatto giustamente impressione l’indifferenza generale. A me fa molta più impressione l’assoluta incomunicabilità quotidiana delle due città, che apparterebbero allo stesso Comune ma che in comune hanno soltanto i certificati di residenza. Lo scandalo sta nell’impossibilità che le due città si integrino, che le élites culturali dell’una riescano a dire qualcosa che abbia un senso anche per l’altra. Che si crei, appunto, una cittadinanza comune.

Questo stesso articolo è tutto interno ad una delle due città, ed il suo autore fa parte probabilmente delle élites culturali che celebrano i loro rituali, ma avverte l’urgenza di immaginare le necessarie mediazioni culturali ed educative per intercettare l’altra città. Viene in mente la geniale intuizione dei classici in strada. Occorre però capire di quale strada si parla e soprattutto chi la frequenta in quelle occasioni. Occorre capire se, quando la città colta va in strada, in quella strada ci vada anche qualche pezzo dell’altra città. O piuttosto in quei casi non si verifichi il paradosso della ghettizzazione della città colta. Non si tratta di tracciare una linea manichea tra la città dei buoni e quella dei cattivi o tra la città dei colti e quella degli ignoranti. Si tratta di riconoscere che il solco scavato tra le due città è constatabile ogni giorno leggendo la cronaca. Una città agisce più o meno indisturbata, l’altra si indigna. Una città fa le analisi, l’altra la ignora.  

Non è un solco riconducibile necessariamente alla differenza di status socioeconomico. Il confine è di altra natura, e separa quelli che vanno a teatro, al cinema, ai concerti, alle presentazioni dei libri, alle mostre, da quelli che di tutta questa roba non sanno che farsene, quale che sia il loro portafogli. E non sanno che farsene o perché sono stretti dal bisogno o stritolati dal consumismo becero o divorati dalla noia figlia della sazietà. Ogni giorno ciascuna delle due città recita la propria liturgia che l’altra detesta, né la politica riesce a fare quello che le spetterebbe in quanto “terzo” istituzionale, cioè costruire le condizioni valoriali per riconoscersi appartenenti ad un destino comune.

La politica non può assumersi un compito del genere perché, al di là delle indignazioni di facciata ad impatto mediatico, non ha legami profondi con nessuna delle due città. All’una offre la propria sponda di immagine per celebrare gli eventi culturali, all’altra il proprio potere clientelare. Non è amata da nessuna delle due. Il nostro sindaco che invoca l’etica pubblica ma sa benissimo che ad essa deve contribuire in maniera decisiva la classe dirigente, amministrando bene e dando esempio diffuso di integrità e serietà.  

Murgia superstar? Ma la libertà non è una passeggiata

La scomparsa di Michela Murgia, come avviene di solito per tutte e tutti coloro che pongono un segno riconoscibile nel discorso pubblico, ha generato articoli e commenti sulle testate giornalistiche, dibattiti anche aspri sui social ed in generale espressioni di stima anche da parte di aree intellettuali a lei avverse. Non essendo un esperto di Murgia, perché non ho mai letto alcun suo libro, ma seguendola qua e là nel dibattito pubblico, ho cercato di rendermi conto di quale fosse (e ancora sia mentre scrivo) la posta in gioco delle celebrazioni o, per meglio dire, la valenza politica del segno da lei lasciato.

Mi è subito parso chiaro che la vita di questa donna è stata un inno alla libertà. E pertanto, come in tutti questi casi accade, pensiamo solo a Pasolini, è stata una vita divisiva. Ed è su questa platea di denigratori e plaudenti che vorrei soffermarmi, non ritenendomi in grado, per decenza intellettuale, di schierarmi tra gli uni o tra gli altri.

Tanto si è discusso sulla sua comunità queer, che avrebbe rappresentato la forma più alta di emancipazione intellettuale ed esistenziale, che Murgia abbia messo in atto, dallo schema familiare borghese. Non mi è sfuggito neppure il forte impegno nella direzione di un abbattimento degli stereotipi che costituiscono il brodo di coltura della violenza contro le donne.

Ho letto commenti provenienti da testate cattoliche come Avvenire, che con garbo e chiarezza hanno con evidenza manifestato rispetto ma preso le distanze dall’impostazione data da Murgia ai legami familiari. Niente di nuovo. Cosa deve scrivere Avvenire? Curiosamente queste prese di distanze vanno a braccetto con analoghe prese di distanze di loschi figuri della politica cui della famiglia cristiana non frega un tubo e usano il vangelo e la fede per farsi i propri comodi elettorali e aumentare consenso. Questo è squallore. Non Avvenire.

Tuttavia ho la sensazione che anche tanti plaudenti, che ad esempio inneggiano alla diffusione del Murgia-pensiero nelle scuole, siano mossi più da un’estetica social-chic che da reale e praticata sintonia di vedute o comunanza di pratiche in tema di libertà e di abbattimento degli schemi familiari legati al sangue e ai ruoli. Deliziose signore da apericena e selfie in gommone maritate in chiesa e rigorosamente eterosessuali e monomaschili sproloquiano sulla libertà di Michela Murgia probabilmente non avendo ben letto le coordinate della propria vita, le scelte compiute, la sequenza dei no alla libertà che la loro vita testimonia. Anche qui un po’ di misura e di decenza intellettuale non guasterebbe.

Il familismo italiano è ben celebre. Nella vita di tutti i giorni è constatabile il filo spinato eretto in tantissime famiglie borghesi tra familiari e parenti da un lato ed “estranei” dall’altro. Arruolarsi nell’esercito di Murgia solo in chiacchiera social-chic senza aver vissuto concretamente l’esperienza della comunità d’amore i cui confini non sono legati ai ruoli, mi pare operazione piuttosto banale. Forse a qualcuna o qualcuno che resta sedotto dallo schema-Murgia occorrerebbe spiegare le complesse dinamiche istituite da un’impostazione di questo genere, di cui si rischia di vedere soltanto una forma di libertà new age cui proiettare le proprie frustrazioni da ordinaria routine familiare. 

Personalmente guardo con simpatia e ammirazione a quel modello di comunità, che rievoca – i cattolici lo dovrebbero sapere, se ancora aprono le Scritture – la relativizzazione dei legami familiari compiuta dallo stesso Gesù di Nazareth nel corso della sua predicazione. Non è il mio modello, perché ho fatto scelte diverse, perché ho seguito un’impostazione più borghese forse per scarso coraggio e debolezza di letture, ma proprio per questo adotto un profilo basso nell’urlare la mia adesione incondizionata al Murgia-pensiero e prendo le distanze dalle facili adesioni ed esaltazioni, perché la vita di Michela Murgia è stata scomoda, molto scomoda, mentre la vita delle inneggiatrici e degli inneggiatori alla libertà non mi appare spesso altrettanto scomoda.

Una parola sull’educazione e sulla scuola. Il pensiero di Murgia a scuola calerebbe come l’acqua sul marmo. La scuola è un contenitore altamente conformista, in cui lo schema-base della famiglia tradizionale raramente è messo in discussione. Il blocco genitori-docenti su questo è molto meno discontinuo di quanto facciano pensare le lamentele dei docenti nei confronti dei genitori. Sono pesci che si fronteggiano dentro lo stesso acquario, in cui Murgia non entrerebbe mai. Non c’è libertà di pensiero nelle scuole, solo uno schema esecutivo top-down che il ceto impiegatizio dei docenti ha la preoccupazione di mettere in atto. Se fosse stata una docente che interviene in un Collegio, Murgia sarebbe stata subito emarginata e richiamata all’ordine da qualche zelante dirigente ventriloquo del Ministero. Inutile prendersi per i fondelli e sognare libertà dove non c’è.

In conclusione, prima di inneggiare alla libertà ci si chieda che cosa vuol dire essere realmente liberi e si sia capaci di riconoscere che la libertà di tutti è molto ridotta, ed i coraggiosi alla Pasolini, alla Saviano e alla Murgia (senza scomodare Gesù, Socrate o Gandhi) si contano sulle dita di una mano. Tutte e tutti commossi al funerale di Murgia e poi tutti a casuccia col cagnolino in salotto, il maritino che nessuna mi deve toccare ed i figli, se ci sono, attorno al focolare domestico, meglio se frequentano ragazzi “sistemati”. Essere donne come Murgia non è facile. Occorre molta ascesi, molto lavoro su se stesse, molte scelte coraggiose, poca comfort zone. Appunto, molta libertà. Cose serie.  

Dante, la scienza e l’immanenza

Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.

State contenti, umana gente, al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;

e disïar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per lutto

(Purg. III, 34-42)

La scienza di Dante comprende le sole cose che vediamo e tocchiamo, insomma l’arredo materiale del mondo. Nessun sospetto riguardo alle cose dentro alle cose, l’immensamente piccolo, o alle cose sopra le cose, l’immensamente grande. E poiché il poeta rappresenta una gigantesca cassa di risonanza delle conoscenze del suo tempo, e dei tempi che lo hanno preceduto, dobbiamo credere che nessuno sia stato sfiorato allora dall’idea di un mondo dentro le cose o sopra le cose. La Terra è una sfera per metà coperta dalle acque e per l’altra metà costituita di terre emerse sotto un cielo stellato fisso e immobile, e dobbiamo immaginare che questo fosse sufficiente a soddisfare le menti degli uomini e delle donne del tempo. Cosa è successo, dunque, che ci ha fatto sollevare gli occhi verso il firmamento e affondare lo sguardo nelle viscere delle cose stesse? Quale terremoto ci ha affrancato dall’ignoranza più fitta e dall’ancor più pericolosa presunzione di sapere? Non certo l’approfondimento dei misteri teologici e della loro complicatissima veste dottrinaria, ma proprio l’inquietudine tutta umana che non ci fa “stare contenti” al quia: una capacità di vedere le stesse cose di sempre come trasparenti e trasfigurate, e di imbarcarsi in una serie nutrita di “folli voli” (Inf. XXVI, 112-126): una terrena ribellione al già deciso e destinato; una natura che oltre alla pura e semplice ferinità ci permetta la messa in prospettiva, la comparazione e l’astrazione, il misurare e il far di conto, senza farci perdere l’inclinazione a leggere Dante e ad ammirare Brunelleschi. Proprio in considerazione della sublimità della Commedia possiamo soffermarci per un attimo a considerare quale immane cammino abbiamo percorso e quale rivoluzione abbia stravolto dalle fondamenta la nostra umile immanenza. Senza alcun bisogno di trascendenza.