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Un libro necessario ed esemplare

Ci sono libri che a leggerli danno soddisfazione. È il caso di Homo sum (sottotitolo: Essere “umani” nel mondo antico) scritto dal classicista Maurizio Bettini e pubblicato da Einaudi del 2019. E la soddisfazione aumenta nel passare in rassegna le persone che hanno contribuito, per esplicita ammissione dell’autore, alla realizzazione di questa perla di enorme valore culturale, figure di studiosi del meridione, ed in particolare palermitani a me cari come Isabella Tondo, Andrea Cozzo e Giusto Picone.

Il contenuto è pregevole di suo. Bettini esplora il senso di umanità dei Greci e dei Romani alla luce della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e soprattutto alla luce della politica salviniana di chiusura ai migranti che era attiva – e da lui radicalmente esecrata – nel momento in cui scriveva. Tanti spunti di riflessione, tante testimonianze provenienti dalla classicità e anche dall’ humus biblico cristiano. Si legge di un fiato e si gode di ogni parola.

Ma la bellezza non si ferma qui. La bellezza continua con l’approccio di Bettini al suo stesso sapere. Mai accademico, mai paludato, mai pedante, come quello che ahimè si vede nelle facoltà umanistiche e – ancora più ahimè – nei nostri licei classici. L’approccio di Bettini al mondo antico resta quello che consente allo stesso di rivelarsi davvero come fondativo: è l’approccio culturale. L’unico cioè in grado di rendere feconda quell’ esperienza perché capace di leggere il contemporaneo e dal contemporaneo farsi rileggere. C’è filologia, diritto, storia e letteratura, ma tutto rifluisce in cultura e in passione civile, quella che lo stesso Bettini riconosce a coloro che lo hanno sostenuto nel lavoro.

È un libro che parla dell’umanità con umanità. Con rigore di studio, chiarezza espositiva e desiderio di giovare. Per questo è un libro educativo. Non solo per i temi che tratta, ma anche e soprattutto per quel modo di far rivivere le testimonianze antiche che davvero convince dell’irrinunciabilità dei Greci e dei Romani molto più delle trite lamentazioni di docenti liceali che ti metto quattro perché non mi hai saputo ripetere l’aoristo.

Due spunti, di contenuto e di metodo, voglio lasciare qui per invitare a questa godibilissima lettura. Il primo riguarda la sostituzione del costrutto “diritti umani” con “doveri umani”. È il filo rosso che percorre il testo, ed è un chiaro mutamento di paradigma che gli antichi ci consegnano. Il secondo è un monito che riguarda le sorti dell’insegnamento della classicità e va rivolto soprattutto agli insegnanti più giovani, il cui zelo pedante troppo spesso rischia di mettere a repentaglio proprio ciò che quello zelo vorrebbe mantenere: “I tempi sono molto cambiati da quando le letterature classiche potevano, o dovevano, essere considerate solo un elegante patrimonio di figure poetiche o letterarie” (pag. 106).

Questo libro ci riporta a quell’umanesimo civile, di matrice dantesca, che considerava la cultura (costitutiva dell’ humanitas latina) quale nutrimento della vita civile e politica, quel che oggi viene chiamato dalla retorica ministeriale cittadinanza. Credo necessario che ognuno lo legga, e forse non solo una volta. Basterà il solo primo capitolo, che rivisita il primo libro dell’Eneide e l’accoglienza riservata ai profughi troiani dalla regina Didone, per fare venire voglia di arrivare fino alla fine.

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Continueremo a volare basso?

Da tempo denuncio la carenza di dibattito pubblico sui temi dell’educazione e dell’istruzione. Paradossalmente fece più parlare di scuola la (brutta) legge sulla Buona Scuola. Oggi è calato il buio sui temi forti. Gli unici linguaggi sembrano il politichese delle ordinanze ministeriali ed il sindacalese della maggior parte dei siti, che giustamente per reclutare lettori devono solleticare l’impiegato che è in ogni insegnante. E poi cronache occasionali: manifestazioni ecologiste e alunni beccati con spinelli. La formazione, che dovrebbe aiutare tutti a mettere a fuoco i fondamentali dell’insegnamento, è il grande bluff: obbligatoria, strutturale e permanente, dissero: 2015. Ma c’è una piattaforma, Sofia, strapiena di cose e cosacce che nessuno controlla ed il popolo dei docenti che ormai ha mangiato la foglia e ha capito che di obbligatorio non c’è proprio nulla. I Dirigenti che dovrebbero presidiare il cosiddetto obbligo, si sa, hanno quasi sempre “impegni istituzionali”. Chiamano qualche esperto ogni tanto e poi si rassegnano al grigiore. Gli Ambiti territoriali fanno la formazione ad anno scolastico quasi concluso e con i formatori che vogliono adattarsi a cifre (con tutto il rispetto) da colf. Alla politica: dimmi quanto paghi i formatori e ti dirò che pensi della formazione.

Ma la resistenza umana ci tocca, e questo blog cerca pervicacemente di stare in prima linea.

Per questo mi permetto di suggerire alle colleghe e ai colleghi più sensibili un kit di autoconsapevolezza dal titolo: Tra saperi, competenze e democrazia oltre la tecnocrazia delle misurazioni: c’è spazio per un nuovo umanesimo professionale? Mi faccio guidare in questo piccolo viaggio da tre Virgilio: Umberto Galimberti, Enrico Bottero e Philippe Meirieu. So di sfidare la tendenza, che ormai prende anche i miei coetanei, tutti indaffaratissimi, alla lettura breve. Questa è invece scientemente una lettura che prende tempo, che chiede riflessione, che chiede rivisitazione delle proprie ragioni professionali profonde. Una lettura che pretende di essere (auto)formativa. Con evidenziatore e matita. E che chiede agli enti, che di formazione si occupano, di alzare le antenne oltre il Digitale, il BES, gli Esami di Stato, l’Alternanza, il Miglioramento, l’Invalsi e altra materia più o meno effimera che costituirebbe le “priorità” 2016-2019 (a proposito, triennio concluso: cosa è successo?).

***

Percorso in tre tappe.

Prima tappa: la cultura umanistica. Serve ancora una cultura umanistica? Galimberti è sempre utile, soprattutto quando permette di ragionare sul suo lessico: educazione, istruzione, formazione, competenze, prestazioni. Denuncia la presunta scomparsa della cultura umanistica a favore delle “molte competenze”. Poi però, con la solita ambiguità del termine, l’alunno dovrebbe fare i conti con “quella competenza che la cultura umanistica offre”: è la competenza emotiva. Aggiungo: quella creativa, come evidenzia questo bel documento.

Seconda tappa: le competenze che servono e la tecnocrazia. Meirieu e Bottero discutono di apprendimento. Dialogo sapiente, istruttivo, che fa giustizia sull’equivoco legato alle competenze. Da leggere e rileggere, anche più di una volta. Bottero da tempo fa obiezione di coscienza verso la lingua tecnocratica che ha invaso le nostre scuole. La sua alleanza con Meirieu è quanto di più prezioso io abbia visto ultimamente per la scuola.

Terza tappa: perle sull’apprendimento. Un concentrato di sapienza è nel libro di Meirieu edito nel 2011 in francia, nel 2015 qui da noi: Fare la Scuola, fare scuola. Francoangeli. Cartaceo. Un buon modo di utilizzare la Carta del docente.

Per invogliare alla lettura dei contributi proposti propongo qui brevi stralci di ciascuno di essi:

Galimberti: “L’educazione a sfondo umanistico non è necessariamente il rimedio al disagio giovanile, ma è senz’altro un aiuto perché questo disagio non diventi parossistico e non si traduca, se non in tragedia, in quei percorsi a rischio che spesso i giovani imboccano perché non hanno alcuna consapevolezza di sé e non intendono assaporare quotidianamente la loro insignificanza sociale”

Bottero: “Misurare le competenze raggiunte dagli allievi servirebbe a valutare i loro risultati. Volendo ‘misurare’, la competenza potrebbe snaturarsi e ridursi ad una semplice performance. Questo sospetto è avvalorato dal fatto che il concetto di competenza, come la pedagogia per obiettivi, è entrato nella scuola sotto la spinta del mondo dell’impresa”

“La scuola pubblica non ha il compito di far emergere i migliori  ma di far crescere le conoscenze di tutti. Essa è il luogo principale in cui si promuove l’apprendimento generale operando così per la riduzione delle disuguaglianze”.

Meirieu: “I saperi generalmente trasmessi a scuola non hanno nulla a che fare con i saperi scientifici. Sono saperi proposizionali, cioè un insieme di saperi espressi attraverso semplici contenuti, in molti casi privi di significato per l’allievo. Il loro contenitore simbolico è il manuale scolastico”.

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