Cogita aut labora
Un oggetto sconosciuto si fa strada tra le famiglie dei ragazzi che frequentano le scuole superiori: alternanza scuola-lavoro. In realtà da undici anni la scuola italiana l’aveva messo all’ordine del giorno (DLgs 77/2005), ma la sua realizzazione era stata limitata agli Istituti Tecnici e Professionali e solo in qualche caso ai Licei, certamente non coinvolgendo i Licei di serie A. Adesso tutti a fare alternanza scuola-lavoro. Alunni sedicenni, di tutti gli Istituti superiori, devono fare questa esperienza. Si va, accompagnati da docenti della scuola, in luoghi dove si lavora (aziende, istituti di ricerca, musei, centri accreditati) e si prova a comprendere che vuol dire lavorare. Poi in qualche modo la scuola farà valere nelle proprie valutazioni questo tipo di esperienze. 400 ore in un triennio nei Tecnici e Professionali, 200 ore nei Licei. Lo vuole sempre quella legge chiamata Buona Scuola. E’ un altro tassello. Le scuole convocano i genitori per spiegare di che si tratta. Fin qui l’informazione, per chi, tra i lettori di questo blog, fosse disinformato.
Dovremmo intervistare i defunti Croce Benedetto e Gentile Giovanni per sapere che ne pensano di un liceale che fa l’alternanza scuola-lavoro. Ne penserebbero tutto il male possibile. Tuttavia se a qualcuno in Italia è venuto in mente di alternare la scuola al lavoro nelle scuole superiori forse la responsabilità un po’ è anche loro. Nel 2002 un signore dal cognome Bertagna pose intelligentemente la questione del rapporto tra theorìa e techne nelle nostre scuole. Erano i tempi della Moratti, ed è da lì, dal pur giusto desiderio di superare questa dicotomia radicale, che provennero le prime suggestioni approdate poi nel 2005 nel famoso Decreto.
Sì, perché anziché fare “lavorare” i ragazzi in classe si è preferito lasciare in classe il chiacchiericcio della lezione trasmissiva e la liturgia delle interrogazioni “ripetimi….” e andarsene fuori per vedere che cosa si fa nella vita. Nel frattempo però – curiosa contraddizione – gli apparati ministeriali hanno bombardato i docenti italiani con la didattica per competenze e con i compiti autentici, facendo balenare l’idea che tutto sommato se anziché “studiare” (nel senso di imparare capitoli e paragrafi di libro di testo) scienze, studiare storia, studiare diritto, studiare matematica si provasse a vedere come si fa lo scienziato, come si fa lo storico, come si fa il linguista e come si fa il giurista, forse quella forbice croce-gentiliana che separa theorìa e techne si sarebbe potuta chiudere. Con un vantaggio: che i ragazzi avrebbero cominciato a capire che una persona non è colta perché dichiara il sapere bensì perché, con quel che sa, impara a vivere e ad essere un cittadino. Vantaggio innegabile rispetto a quello di andare a bivaccare in luoghi dove altri, più grandi, lavorano e ti dicono che cosa stanno facendo, così un giorno tu ti diplomi e li vai a trovare alle soglie della pensione o del licenziamento con la speranza vana che poi ci andrai tu.
Quando alcuni volenterosi (tra cui indegnamente mi annovero) nel nostro Paese cominciarono a spiegare fin dagli anni Novanta che il dispositivo delle competenze avrebbe potuto fare giustizia della dicotomia croce-gentiliana, si sono scatenati gli erotologi dell “ora di lezione” o i vari Settis e Galimberti di turno, pronti ad attaccare il dispositivo didattico delle competenze inventandosi una loro presunta opposizione alle conoscenze. Così lo stesso esercito ha perso di vista il nemico comune e si è divaricato tra i soloni incompetenti di scuola che però hanno il vantaggio di radunare le masse e quelli rubricati da uno di loro, quello dell’erotica dell’ora di lezione, “pedagogisti di sinistra”, che non radunano le masse ma sanno di che parlano.
E tra questi ultimi ce n’è uno che scrive così (corsivi miei): “Per quanto riguarda la trattazione di tematiche legate a discipline scolastiche, una modalità relativamente semplice ed efficace per mettere gli studenti in situazioni autentiche è quella di farli lavorare come gli esperti di quella disciplina. Lavorare “come” un giornalista, uno storico, uno scienziato consente agli studenti di avvicinarsi alla complessa realtà del lavoro di questi professionisti, di usare i loro ferri del mestiere, di svolgere le loro stesse attività. Perché far studiare storia quando si può far lavorare uno studente come uno storico? Ricercando fonti, verificandone l’autenticità, incrociando dati, ricostruendo gli eventi. Invece di studiare scienze, perché non far lavorare gli alunni come scienziati? Facendo ricerca su una tematica, facendo piccoli esperimenti, annotando gli esiti, documentando. Gli studenti ricercano informazioni, le analizzano, le valutano, le usano per costruire un elaborato, risolvono problemi, lavorano in gruppo, utilizzano conoscenze già possedute e ne sviluppano di nuove e necessarie per svolgere il compito assegnato. Comprendono a fondo la tematica e sviluppano competenze.” (G. Marconato).
Orrore. Costui scrive di una scuola in cui si lavora in gruppo, si cerca qualcosa insieme, si fanno ipotesi, si elaborano e producono artefatti. E si fa tutto questo con le discipline. Orrore. Costui parla di una scuola che rende davvero colti perché è capace di mobilitare il sapere attorno a questioni, a ipotesi, a problemi. Non c’è il rischio che la scuola di cui parla costui sia una buona scuola? Rischio grosso. Meglio lasciare la scuola così com’è e farsi due passi sul territorio per andare a vedere che cosa fa chi a scuola non ci va più.
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Pubblicato il 9 aprile 2016, in Cultura e società, Educazione e scuola con tag Cittadinanza, Competenze scolastiche, Discipline scolastiche, Istruzione, Politica scolastica, Studenti. Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.
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