Genitori e figli al tempo dei video hard
La Repubblica ed. Palermo 27.03.2014
Maurizio Muraglia
Di fronte alla diffusione di video hard tra adolescenti dei nostri Licei il senso comune si indignerà e griderà allo scandalo scoprendo che il re è nudo. Ci sarà certamente anche chi troverà in tutto questo conferma a quanto da sempre sostenuto ovvero che cellulari e internet stanno portando i giovani alla deriva perché li espongono alla confusione tra virtuale e reale generando un protagonismo improprio anche a sfondo erotico. L’adolescenza è a rischio, in soldoni. Giustamente la polizia postale interviene. Deve farlo. Di fronte all’esplosione del bubbone bisogna correre ai ripari ed impedire che continuino a diffondersi i filmati che sono stati girati da e tra i ragazzi.
Il re è nudo, si diceva. Chi grida allo scandalo non può ignorarlo. Ma anche chi sta tra i ragazzi e ha cognizione competente di tutto questo si arrovella per cercare di capire cosa si dovrebbe fare per arginare questa deriva. Sì, perché di deriva si tratta, e non c’è relativismo che possa convincerci che l’utilizzo e la diffusione dell’erotismo nei termini di cui stiamo parlando corrisponda ad una qualche realizzazione personale verso cui portare rispetto. Personalmente non porto alcun rispetto verso queste forme. Nessuno. E se dovessi ragionare con queste ragazze e questi ragazzi, se fossero mie alunne e miei alunni, direi loro che queste pratiche hanno tutta la mia disapprovazione. E ce l’hanno non perché voglia fare professione di perbenismo, ma perché la trasgressione a mio parere è cosa ben più seria rispetto alla banalità di farsi riprendere da cellulari in pose erotiche, ammesso che di erotismo (che reputo qualcosa di molto serio) si possa parlare a proposito di queste scenette.
La disapprovazione non scandalizzata è un buon viatico verso la riflessione. Riflessione doverosa e pericolosa, come tutte le riflessioni a rischio di retorica. La retorica in campo educativo è sempre dietro l’angolo, soprattutto quando si pensa all’educazione come il campo delle prediche rivolte da adulti portatori di valori “sani” a giovani che sono preda delle suggestioni più incresciose indotte dagli strumenti diabolici di cui dispongono. La retorica è il campo delle virtù e dei vizi, individuati in modo più o meno “oggettivo” e non sottoposti invece all’indagine sui bisogni, che mi pare quella più appropriata in tutte le situazioni in cui si è spettatori di comportamenti “degenerativi”.
Sul piano dei bisogni c’è sicuramente un precocismo della esibizione. I mezzi digitali scatenano probabilmente il connubio micidiale tra l’ansia da prestazione corporea, tipicamente adolescenziale, e la sua visibilità spettacolarizzata, che dà l’ebbrezza di essere al centro dell’attenzione di molteplici sguardi. Non è un bisogno nuovo. Ancor prima della diffusione delle tecnologie digitali di comunicazione, gli adolescenti hanno sempre cercato di rompere il bunker perbenista degli adulti per accedere ad uno spazio di emancipazione personale. Gli anni Settanta li ricordiamo tutti. I capelli lunghi, lo spinello, l’emancipazione sessuale della donna crearono i presupposti per un nuovo rapporto tra le generazioni, che fino a quel momento appariva destinato al conflitto permanente.
Oggi i rapporti tra le generazioni non sono più né conflittuali né prescrittivi, se non forse in ambienti popolari dove permangono alcune figure feroci di pater familias. Oggi il negoziato appare la forma più diffusa di relazione tra genitori e figli o tra insegnanti e studenti soprattutto in ambienti più colti. Sono diventate obsolete parole come “proibizione” o “controllo”, e gli strumenti digitali hanno reso ancor più problematica se non impraticabile la possibilità di mettere il naso all’interno di spazi piccolissimi di interlocuzione privata. Quale genitore oggi si metterebbe il cellulare della figlia in mano per vedere cosa gira su whatsapp?
Per questo lo spazio discorsivo relativo a questi fatti non può essere né quello dell’indignazione scandalizzata né quello della cosiddetta laudatio temporis acti, l’elogio del buon tempo andato in cui i genitori avevano agio di controllare i figli perché chi voleva contattarli telefonicamente doveva necessariamente passare per un telefono fisso domestico al cui squillo il giovincello doveva riuscire ad arrivare prima dei genitori. E’ il piano dei bisogni invece quello che probabilmente va scrutato con maggiore sapienza intellettuale, ma senza l’ingenua convinzione che possa esserci una ricetta valida in assoluto per neutralizzare derive come quella di cui stiamo parlando. Non ci sono garanzie su questo. Però qualche focus di attenzione, in famiglia e a scuola, può essere attivato, almeno per comprendere che esiste qualche carta se non proprio vincente certamente perdente nel rapporto con i nostri adolescenti.
In primo luogo l’assenza di interesse che genera l’assenza di conflitto. Ed il conflitto né può né deve essere risparmiato ai giovani. Il disinteresse snob degli adulti per i linguaggi e l’immaginario dei ragazzi non aiuta. L’esperienza mostra che il mondo digitale, dei video, delle chat, di facebook è un mondo che i ragazzi possono anche narrare (o condividere) con gli adulti raccontando e discutendo la materia che passa sul web. Più ancora forse aiuterebbe un insegnamento liceale meno attardato su percorsi lontanissimi dall’esperienza dei ragazzi o peggio proteso in una corsa pazza a rovistare nozioni argomenti e paragrafi da affastellare per raggiungere non si sa quale traguardo. Certamente un traguardo cui molti ragazzi non sono interessati perché il loro mondo emotivo si nutre di ben altro. C’è materia di riflessione sui bisogni dei ragazzi. Sobria, non retorica, disillusa quanto basta, ma anche fiduciosa in una qualche possibilità di delineare cornici relazionali e culturali forse più gratificanti di quelle che riserviamo oggi ai nostri ragazzi.
Pubblicato il 27 marzo 2014, in Attualità, Cultura e società, Educazione e scuola con tag Educazione, Studenti, Tecnologie digitali. Aggiungi il permalink ai segnalibri. 1 Commento.
Pingback: Genitori e figli al tempo dei video hard | Carlo Columba