I dati Invalsi e i loro Esegeti
I risultati degli studenti italiani pubblicati da Invalsi hanno avviato la solita stanca liturgia. Pubblicazione degli esiti, cancan sui media, riflettori spenti. Politiche scolastiche come prima e peggio di prima. Uccidere il malato e poi certificarne il decesso. Con conseguenti vesti stracciate dei commentatori.
Il quotidiano La Repubblica da diversi giorni ospita autorevoli contributi che probabilmente pochi leggono, ma che rivelano magnificamente il polso della scuola che hanno le nostre cosiddette élites.
Per non tediare i lettori di questo blog può valer la pena passare in rassegna solo qualche stralcio da alcuni di questi commenti, perché ho la sensazione che sul mondo della scuola dicano di più i commenti ai dati Invalsi che gli stessi dati Invalsi la cui pretesa valutativa é certamente più mite. Prenderò in considerazione alcuni spunti prodotti da Antonio Pennacchi (scrittore), Silvia Ronchey (filologa classica), Eraldo Affinati (scrittore con qualche esperienza di insegnamento) e Massimo Recalcati (psicoanalista e, da quel versante, noto tuttologo). Ricordo che il punto di partenza di queste dottissime dissertazioni, che arrivano fino ai massimi sistemi della cultura, sono i risultati delle prove Invalsi. La lettura mediatica è stata: “I nuovi analfabeti”.
Procederò in ordine decrescente di incommentabilità, quindi mi tocca l’obbligo di partire, appunto, da Pennacchi: “Ai nostri tempi, a scuola, se non studiavi ti menavano (il signore è del 1950, quindi grosso modo tra il 1960 e il 1968, tempi d’oro della scuola, ndr). Certe bacchettate sulle mani e schiaffoni a tutta forza in testa, mica solo alle elementari. Ancora in quinto geometri – nel 1968 – mia madre si presentava ogni volta, al ricevimento professori, a dirgli imperiosa: ‘Lo meni professo’, mi raccomando! Lo meni, se serve’. Adesso invece pare siano i genitori, spesso, a menare i professori.”
A questo, lo scrittore perverrebbe partendo dalle prove Invalsi. Credo che quel prof abbia seguito il suggerimento della madre dello scrittore. Evidentemente serviva.
Continuiamo con l’accademica Ronchey: “Fin dall’inizio degli anni ’70 del secolo scorso (la nostra era appena dodicenne e già frequentava la scuola media unica frutto del demonio pedagogico, ndr), nel nome della cosiddetta democratizzazione della cultura, si assisteva a fenomeni bizzarri. Una collana, pubblicata da una casa editrice di partito, ideata e curata da un grande accademico nel nome di una ‘educazione linguistica democratica’, proponeva libri in cui non fosse usato che un numero limitato di vocaboli. La lotta al nozionismo, che aveva animato il Sessantotto e i suoi seguaci, nei licei di tendenza di quegli anni si prolungava nella condanna della complessità della parola […] E’ stato così che l’idea illuministica di un accesso al sapere aperto a tutti si è trasformata in un’ideologia di fatto oscurantista, alimentata da una gara demagogica tra i partiti della sinistra e dell’ala cattolica, che ha finito per produrre un nuovo genere di analfabetismo […] la cui caratteristica saliente è convincere illusoriamente chi ne è soggetto di essere invece in possesso della cultura. Con risultati catastrofici, non solo in Italia. Secondo studi scientifici di recente pubblicazione il Q.I. dei giovani europei ha cominciato a calare proprio negli anni ’70 e si è ridotto da allora a oggi con una media di 7 punti per generazione”.
Circolano studi “scientifici” di questo genere? E’ da ritenere comunque che l’accademico attaccato fosse Tullio De Mauro.
Affinati invece riesce miracolosamente a domandarsi: “Siamo davvero persuasi che una semplice risposta corrisponda a una vera conoscenza? Certificare la cosiddetta qualità scolastica è particolarmente difficile: dobbiamo conoscere il punto di partenza dello studente per verificare il percorso che ha compiuto: solo chi è stato con lui tutto l’anno può saperlo. Inoltre esistono tempi e forme di apprendimento assai diverse da persona a persona. Molto, se non tutto, dipende dalla relazione umana che scatta fra docente e discente”.
E come fu? Eppure anche il Nostro esordiva con “I risultati scarsi, secondo alcuni disastrosi, fatti registrare dagli studenti italiani nelle recenti prove Invalsi……” eccetera eccetera. Quindi li assume anche lui come evidenza dell’ignoranza dei nostri studenti. Non si sposta dal paradigma degli altri.
Recalcati merita un discorso a parte, perché quando parla di scuola è notoriamente capace di mixare il suo discorso con finezze intellettuali e altre cose tipo: “Io sono – anacronisticamente o, se si preferisce, novecentescamente (ma i pedagogisti progressisti non datano dal ’68? Secolo brevissimo?, ndr) – tra quelli che credono ancora nel modello tradizionale della lectio ex-cathedra. E’ solo la testimonianza dell’insegnante e della sua parola che può accendere o spegnere il desiderio di sapere negli allievi”.
Davvero originale, anzi originalico. Chi ci avrebbe mai pensato? Crozza, batti un colpo.
Il Nostro arriva a questa geniale intuizione pedagogica dopo un lungo ragionamento sulla desuetudine dei ragazzi alla lettura. I ragazzi non amano più leggere. Questo naturalmente, anche per lui, si evincerebbe da quelle prove Invalsi per affrontare le quali la lettura di un brano è destinata ad essere realizzata con la rapidità prevista dal cronometro (alla faccia della critica alla velocità del nostro tempo) e deve concretizzarsi nel saper aderire a risposte precostituite. Naturalmente si tratta non della lettura scelta in base ai propri interessi, ma di una lettura imposta in forma standardizzata in cui i significati del testo sono testificati per constatare la comprensione “tecnica” di un brano. Ovviamente quest’accezione di “comprensione” farebbe inorridire tutti i difensori-della-scuola-di-una–volta, da Della Loggia passando per Augias fino a quelli di cui mi sto occupando.
Come gli altri, anche Recalcati fa professione di umanesimo, profondità della cultura, e si spinge perfino a parlare di “emancipazione da criteri di valutazione rigidamente quantitativi nei quali ricade fatalmente anche il paradigma degli Invalsi”. Colpo di scena. Il Nostro ha intravisto la crepa nel paradigma. Che neppure l’ultimo dei commentatori, Asor Rosa, vede. La assume acriticamente e la commenta.
Purtroppo i grandi media sanno quali interventi devono pubblicare. Sarebbe difficile infatti pubblicare interventi intelligenti e competenti come quello di Mila Spicola, che la scuola la conosce, o addirittura interventi che avessero come filo conduttore questo genere di domanda: sentite professor Recalcati, professoressa Ronchey, signor Pennacchi (Affinati si è salvato in corner), ma tutti i vostri brillantissimi studi umanistici non vi hanno suggerito l’idea che fare evolvere un sistema possa voler dire pensare anche in avanti e non solo all’indietro? Uno vuole i Ceffoni, l’altra vuole il Quoziente Intellettivo (ma la signora Ronchey sa chi siano quegli analfabeti di Gardner e Goleman?) e il terzo vuole l’Ex-Cathedra. Ma c’è l’ho spiegherebbero a noialtri come farebbero lorsignori a preparare i nostri alunni per vivere il loro tempo?
L’ultima frase è palesemente frutto della pedagogia di sinistra e cattolica degli anni ’70 benedetta da Tullio De Mauro e dai suoi seguaci………….
Pubblicato il 25 luglio 2019, in Cultura e società, Educazione e scuola con tag Competenze scolastiche, Prove Invalsi, Studenti, Valutazione di sistema. Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.
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