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DIVIETO CELLULARI: IL NEOPROIBIZIONISMO CHE METTE LA CENERE SOTTO IL TAPPETO

“Io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri”.
Torna sempre alla mia memoria di laico questo passo di Paolo di Tarso, tratto dalla Lettera ai cristiani di Roma, quando nel mio lavoro di insegnante osservo la dinamica della Proibizione, di cui la scuola, a misura della sua perdita di credibilità sociale, sembra avidamente nutrirsi. La dinamica della Proibizione consente a chi vuole debellare un fenomeno di intervenire sulle regole. Sarebbe impensabile una scuola priva di regole. Chi potrebbe immaginare una vita scolastica ordinata se nulla fosse proibito?
L’ultima circolare del ministro Valditara non poteva che riscuotere il plauso pressoché generalizzato perché proibisce l’uso del cellulare nella scuola dai 3 ai 14 anni. E per marcare la propria perentorietà lo vieta anche per scopi didattici, aggiunta superflua perché sarebbe stato comunque l’unico ambito in cui la proibizione avrebbe dovuto concentrarsi, considerato che il cellulare in classe, durante le lezioni, già non può essere adoperato con altri scopi. Quindi la notizia non è il divieto ma gli scopi didattici.
Questa proibizione dovrebbe “togliere il male da Israele”, sempre per parafrasare l’ansia proibizionista dell’antico ebraismo certificata dal Deuteronomio.
Vietare è impegnativo. Perché chi vieta deve essere irreprensibile, pena l’indebolimento di significato del divieto, del genere “fate come vi dicono ma non fate quel che fanno”. Il mondo proibizionista degli adulti, infatti – mondo politico incluso che ne ha bisogno come il pane per gestire i consensi – non è meno dipendente dai cellulari di quanto non appaia il mondo giovanile, e a giudicare dal continuo e becero uso che se ne vede fare da persone che vanno dai 40 ai 70 anni si può trarre il convincimento che forse il pulpito ha qualcosa che scricchiola.
Si dirà che il divieto riguarda i più piccoli, ma qualcosa non torna ugualmente, perché consentire al quattordicenne liceale quel che è vietato al ragazzino che era prima non toglie proprio nulla da Israele, ovvero non rende il quattordicenne più saggio.
Seguendo la logica paolina infatti è abbastanza verosimile che il divieto aumenti a dismisura la voglia di trasgressione dei più piccoli, ai quali le insegnanti e gli insegnanti del primo ciclo dovrebbero spiegare perché loro no e gli adulti sì. Impossibile infatti immaginare un esercito di docenti del primo ciclo che dalle 8 alle 14 ignori il proprio cellulare: ci sarà sempre un tecnico della lavatrice, una madre anziana, un postino, un corriere di Amazon che non passeranno mai dal centralino della scuola. E allora che si fa?
I social sono il luogo-principe della chiacchiera da stadio. E nella logica dello stadio si è visto chi ha denigrato la circolare del ministro perché Valditara è di destra e quindi appariva naturale contestarlo anche se avesse detto che la terra gira attorno al sole; e chi vi ha inneggiato come alla panacea di tutti i mali del secolo, perché all’uomo comune la Proibizione – naturalmente inflitta agli altri su questioni che non lo toccano – dà una sorta di vertigine educativa insopprimibile.
Posture come quella che qui assumo invece sono molto più soggette a critiche perché sfuggono a quel genere di chiacchiera e peraltro hanno un’impronta antiproibizionista. Infatti sono convinto che in educazione ogni proibizione abbia respiro corto: vinci la battaglia, ma non vincerai mai la guerra. In politica questa attitudine al proibire (tra cui chiudere porti ecc.), che è un’attitudine muscolare, si chiama generalmente propaganda. Sono ormai più di venti anni che i ministri tentano di fare la guerra ai cellulari, con lo sguardo miope di chi non immagina che una circolare ministeriale del 2070 proibirà l’ingresso nelle scuole senza il cellulare, come oggi è proibita la partenza in aereo senza documento di riconoscimento.
L’alternativa alla proibizione è nota a tutti, ma ha scarso successo perché costa troppa fatica e forse esige una professionalità docente di un certo tipo. Il dispositivo da proibire va infatti guardato in faccia, tutti insieme, per capire dove ci frega e dove ci avvantaggia. Ci sono momenti della lezione in cui lo poseremo perché il focus è altrove, e anche questo riporre il cellulare sarà educativo, con un’enfasi quasi liturgica, perché tutti capiranno quando è il caso e quando non lo è. Poi lo prenderemo tutti insieme perché ci serve andare a cercare qualcosa che ci serve oppure perché vogliamo imparare il suo utilizzo per studiare meglio.
Essendo un dispositivo di uso quotidiano che poi, dalle 14 in poi, userebbero comunque, si tratterebbe di metterlo a tema in classe, come tutte le cose “pericolose” che a scuola vengono guardate in faccia per capire in cosa consista la loro pericolosità. Diventiamo dipendenti da qualcosa senza cui non riusciamo a vivere. Non è che toglierla dai radar vuol dire eliminare la dipendenza. Ti posso togliere la “roba” e farti impazzire dal desiderio di averla, ma non ho risolto il problema se non lavoro sulle ragioni della dipendenza. Significa mettere la cenere sotto il tappeto.
Tracce d’Esame: non sto nel coro

La platea degli oppositori all’attuale governo tuona scandalizzata dai media e dai social per le tracce d’esame di prima prova proposte agli studenti. Se ne sono lette di tutti i colori, si sono viste vesti stracciate e si è gridato allo scandalo. Ho letto e riletto le tracce più volte, le ho pure commentate pubblicamente a richiesta della rivista del CIDI Insegnare, ma al frastuono generale non riesco ad unirmi per quanto desideri farlo perché anche a me questo governo e questo ministero non piacciono. E non ne faccio mistero pubblicamente. Ma qualcosa mi rende impossibile imbracciare anche la mia lancia con le altre: si chiama onestà intellettuale. Cioè non volere venir meno all’intelligenza incondizionata.
Dai loro siti gli studenti si sono altresì lamentati. Ma non ci hanno messo niente di quel che invece gli adulti hanno messo. Hanno solo rilevato che non si aspettavano quelle tracce, senza scomodare ideologie, maschilismi, passatismi, arcaismi e altro armamentario di cui si è letto. Hanno persino dichiarato che quelle tracce rispetterebbero le Indicazioni Nazionali (Quasimodo, Moravia), ma quegli autori a scuola magari non si trattano. Rilievi didattici, non politici.
Si è rilevato che solo uno su dieci sarebbe stato in grado di fare tutte le tracce. E che c’è di strano? Quando mai è stato diverso? Le tracce sono sette perché si scelga, e si scarta proprio ciò che non ci si sente in grado di fare. Perché non calcolare invece quanti studenti non avrebbero saputo farne alcuna? A vedere le percentuali non pare che gli studenti si siano concentrati solo su una o due.
Diverse colleghe e colleghi, non militanti, non politicizzati forse, mi hanno scritto che dal loro punto di vista si trattava di tracce praticabili. Forse si tratta di una platea silenziosa incapace di cogliere le diavolerie ideologiche dei tecnici ministeriali. Dico la verità: mi piace far parte di questa platea. Chiamatemi ingenuo. Io ho visto essenzialmente quattro cose:
- Il ridicolo della traccia C1 con la lettera degli intellettuali a Bianchi. Bastava ignorarla. Ma tutti questi difensori di Bianchi al tempo di Bianchi non si erano visti. Anzi.
- La sorpresa positiva del concetto di nazione di Chabod, decisamente più evoluto rispetto a quello del governo. La nazione non è fine a se stessa. L’Europa e l’Umanità sono il suo orizzonte di riferimento. Meloni?
- L’altra sorpresa positiva dell’utilizzo di un articolo di Repubblica, che non mi pare sostenga questo governo.
- L’innocenza sostanziale delle altre tracce, che potevano prestarsi a trattazioni banali o intelligenti. In tutte c’era campo di esibire intelligenza, cultura e capacità di scrittura. Non mi pare che Piero Angela fosse un intellettuale di destra e che scrivesse fregnacce, e non mi pare che la Fallaci, che invece con la destra qualche rapporto l’aveva, volesse in quel testo fare apologia di totalitarismi di destra. Senza considerare Moravia, che militò nel PCI.
Insomma, qualcosa, quando vedo l’indignazione delle mie compagne e compagni di sinistra, non mi torna. Nell’insieme non ho visto quest’anno insulsaggini superiori a quelle che ho visto in tutti questi anni, in cui nelle tracce c’era di tutto e di più, e non erano soltanto governi di destra.
Di più: chi qui scrive ha tuonato davvero quando è venuta fuori la madre delle insulsaggini, cioè il colloquio sancito dalla nuova formula di esame (2018-2019, dlgs 62/2017) che bandiva la terza prova e creava lo spezzatino nientologico condito da improbabili documenti misteriosi da commentare e collegamenti patetici tra gli argomenti trattati. Il tutto per autorizzare nelle programmazioni coordinate il delirio delle tematiche trasversali, sedativo che non fa avvertire a molti il dolore delle proprie carenze disciplinari. Per scippare dalle mani degli studenti la tesina sono spuntate le buste, l’elaborato introduttivo e altra materia risibile. Di urla se ne sono viste poche: governi di marca PD. O Fedeli/Gentiloni stavano a destra?
Noi insegniamo ai nostri ragazzi la cittadinanza, la laicità e l’argomentazione. Significa criticare senza risparmio laddove un’evidenza si impone al nostro punto di vista come becera (vedi educazione civica, tutor, voti numerici e altre facezie). Ma non significa aspettare al varco l’avversario e colpire qualsiasi cosa dica o faccia. Non è un buon viatico educativo, perché rende le vacche tutte nere come di notte.
Ma qualcuno la democrazia nelle scuole l’ha vista?

Non c’è niente di più complicato che praticare la resistenza in tempi di libertà. A me il 25 aprile fa pensare questo. È vero, come diceva Troisi, a proposito del Miracolo: c’è Liberazione e liberazione. Ma pensare alla seconda non è anche un buon modo per celebrare la prima? E in che misura la scuola è coinvolta in questo discorso? Rileggendo in questi giorni per l’ennesima volta la Lettera a una professoressa degli allievi di don Milani, la cui nascita risale a cento anni fa, ho rivisto quanto quel testo trasuda di resistenza e di desiderio di liberazione. Eppure nel 1967 non c’era più la dittatura. Qualcosa non torna? Si può quindi parlare di resistenza in tempi di libertà?
Michele Serra chiamava il suo “Cuore” settimanale di resistenza umana. Ecco, resistenza umana. La scuola di oggi sembra avere dimenticato la resistenza umana forse perché non si accorge più di quel che accade. Prendiamo le ultime sparate ministeriali, di un Ministero appartenente ad una libera Repubblica democratica. Finita la sbornia del 25 aprile tutte le scuole torneranno ad adoperarsi per trovare i docenti orientatori e i docenti tutor. Difficile immaginare che all’interno delle scuole si sia avviata una riflessione collegiale sul significato di questa novità. Nelle scuole non si discute più ormai. Si esegue. Altro che resistenza e liberazione. Qui manca il prerequisito di entrambe: la libera discussione democratica.
La vicenda dell’Educazione civica e del docente tutor sono esemplari. I dirigenti scolastici, che pure in molti casi sono figure di gran spessore intellettuale e civile, non hanno altra chance che essere mere cinghie di trasmissione nel veicolare le decisioni ministeriali a Collegi che le recepiscono senza discutere. Al più, si adoperano per favorire ricezioni intelligenti dell’Insensatezza. Ma nella sostanza il sistema è feudale, dal ministro ai direttori regionali con i loro dirigenti tecnici comandati che producono slides e visite ispettive, ai dirigenti scolastici, per finire ai docenti, proletariato intellettuale esecutore. Dov’è la libertà? Quando all’interno di un Collegio qualcuno tenta di avviare una discussione nel merito di una misura ministeriale scatta la clessidra. Quando non peggio. Nelle sale professori idem. Il desiderio comune è quello di star quieti. La maggior parte dei docenti non ha voglia di ragionare su ciò che “si deve fare”. Nella fattispecie, la questione del tutor è soltanto un adempimento. Occorre soltanto trovare le disponibilità. È uscita la circolare con la masticazione del decreto ministeriale fatta dal dirigente. Cosa vuoi discutere.
Cosa poi debba fare un tutor non è chiaro a nessuno. E non sorprende. Perché in realtà non è chiaro cosa si debba fare per “orientare”. Ogni alunno, nel momento in cui mette piede in un’aula scolastica, deve studiare insieme ad altri compagni. Si trova davanti insegnanti e saperi scolastici. E deve capire qual è la sua via. Per la verità, fino alla terza media c’è poco da capire la via. Tutti insieme appassionatamente. La questione si pone alla fine del primo ciclo ed ha a che fare, ancora, con i saperi e con le capacità che l’allievo va acquisendo. Dunque con gli insegnanti di quell’allievo, che si riuniscono periodicamente per fare il punto sulla situazione degli apprendimenti. Sono essi che intrattengono un rapporto “orientativo” con l’allievo. Sulla base dei saperi, di fronte ai quali ogni allievo misura le proprie inclinazioni favorevoli. Oppure il proprio odio. A seconda di chi va in cattedra. Le famiglie c’entrano molto poco. Non sono addette ai lavori, lo diventano quando chi lo dovrebbe essere non è all’altezza. Sanno tutti che basta insegnare con serietà e competenza, rendendo operativo e vitale il rapporto con i saperi, perché l’allievo non si senta “disorientato”. Lo sanno anche al Ministero. Ma arrivano soldi. E vanno spesi. Un po’ di prosopopea e di paccottiglia pedagogica di contorno ed ecco il tutor bell’e fatto.
Si dice che la scuola sia maestra di democrazia ma è solo retorica, perché non esistono le condizioni per insegnarla o praticarla in classe, e non esistono perché chi non la pratica non la può insegnare. Ancora il voto di condotta si abbassa se l’allievo è impertinente e la dice sul muso al docente. La rivalsa. Altro che 25 aprile.
Insomma, mai come in quest’epoca la democrazia interna alle scuole ha toccato il fondo. Mai come in quest’epoca è assente ogni forma di resistenza di fronte a misure insensate, incompetenti, inessenziali. Le ultime significative obiezioni di coscienza interne alle scuole risalgono al portfolio del 2004 e al bonus premiale del 2015. L’uno e l’altro infatti sono stati affossati in virtù di prese di posizioni forti. Questioni educative di grande portata, quali l’inclusione, il merito, la cittadinanza o l’orientamento, sono ridotte a certificazioni da compilare per sedare le famiglie oppure a numero di ore da dichiarare, 33 di educazione civica, 30 di orientamento. Banalità pedagogiche. L’educazione ridotta a Burocrazia ed Adempimento. Altro che festa della Liberazione. Questa è la festa della Sudditanza. Nessuna Greta Thunberg della scuola all’orizzonte. Si naviga a vista. Buon 25 aprile.
Il ministero meritevole e moralizzatore
Il ministro protempore della scuola emana una circolare in cui ribadisce il divieto di uso del cellulare a scuola. Che è una formulazione essenzialmente inesatta. E’ il divieto di abuso, non il divieto di uso. Che gli abusi di qualsiasi genere siano vietati è un’ovvietà. Infatti poi non può (perché non deve) fare a meno di precisare che per fini didattici e formativi autorizzati dal docente i cellulari si possono usare. Il dibattito stucchevole è partito, molto spesso dopo una lettura superficiale del testo ed una sostanziale ignoranza del suo sovrascopo. Sono anni che la stessa politica ministeriale enfatizza le competenze digitali. Si fa formazione ai docenti sull’uso formativo dei dispositivi personali. Qualcosa non torna. Già nel 2007 il dimenticato ministro del centrosinistra Fioroni, che mai e poi mai l’attuale ministro avrebbe desiderato citare se non fosse per portare avanti il sovrascopo della circolare, aveva inneggiato al ritorno della serietà. E adesso i cultori della serietà tornano ad occuparsi della scuola, quando proprio i loro sodali ed essi stessi ammorbano ogni giorno l’aria che si respira con gli squilli dei loro cellulari. Nel 2007 ad un convegno sulla scuola che si svolgeva nelle Marche cui ho presenziato un esperto di scuola rivolse la parola al ministro Fioroni che per tutta risposta si alzò e si appartò per parlare al cellulare. Quanto dire.
Che in classe un alunno possieda o non possieda il cellulare è un problema di chi insegna. Tenerlo nelle mani e fare altro rispetto a quanto viene insegnato è sbagliato ma non c’è bisogno della circolare ministeriale per capirlo. Tante cose sono sbagliate a scuola: anche studiare Matematica mentre c’è Filosofia, ma nessuno vieterebbe di portare il libro di Matematica. Anche pensare ad altro mentre si spiega, ma nessuno vieterebbe di portare a scuola il cervello.
La finiscano i politici di compulsare il sistema con circolari il cui sovrascopo è solo quello di annunciare a benpensanti sparsi qua e là – inclusi docenti che in classe avrebbero comunque seri problemi a farsi seguire – il ritorno della serietà. La parola divieto è molto seduttiva, si sa. Solletica l’immaginario dell’uomo della strada e lo illude che vietare significhi risolvere. La solita pantomima delle soluzioni semplici a questioni complesse. Se a scuola c’è noia e desiderio di fare altro non sarà la sparizione del cellulare, cioè della tentazione di fare altro, che risolve il problema. Il problema è la noia, e la noia è una questione relazionale, educativa e didattica. Che si affronta discutendo sui saperi della scuola, sulla pedanteria di troppi insegnanti, su una caricatura di valutazione che ancora fa medie aritmetiche e sulla burocrazia che ormai appesta la vita degli insegnanti distraendoli dal cuore della loro professione, che resta culturale. La scuola affonda ed il ministro sequestra i cellulari. Non so se il riso o la pietà prevale, diceva il poeta recanatese.
Caro ministro, ci levi mano. Glielo dice un docente che usa e fa usare il cellulare in classe perché in classe si studia, si ricerca e si dibatte. E oggi non si studia, non si ricerca e non si dibatte senza il supporto di un cellulare. C’è in classe il libro e c’è il cellulare. Entrambi si aiutano e tutti siamo più istruiti. Il cellulare lo usa anche lei ed i suoi colleghi politici. Lo usano gli insegnanti e i dirigenti. Sempre. Perché vivono nel loro tempo. Che distragga o non distragga dal proprio dovere fa parte dello scenario cognitivo in cui anche a lei tocca vivere. La sua circolare non dice niente di più di quanto è ovvio, cioè che è vietato fare un’altra cosa rispetto a quella che si ha il dovere di fare. La spieghi ai suoi colleghi parlamentari, quando si sta lavorando per il bene comune e si fanno gli affari loro dentro il loro cellulare. La spieghi anche ai dirigenti, che lo usano durante le conferenze di servizio, e ai docenti, che lo usano durante i collegi dei docenti. Nel caso dei ragazzi, la monelleria ricade su di loro, nel caso degli adulti la monelleria ricade su tutti noi.
Panebianco, lasci perdere gli incisi


Sul Corriere di oggi, Angelo Panebianco ragiona di politica, ma poi non resiste alla tentazione dell’Inciso. Per inciso, siccome gli urge nelle viscere, deve esprimere i seguenti concetti:
Primo. Gli studenti, ma forse anche i docenti, sono capitale umano (detto due volte). La parola capitale vuol dire che se si investe su di loro, per esempio aumentando gli stipendi ai docenti, devono produrre.
Secondo. Non sono creatori di capitale umano, e quindi non lo sono essi stessi, e quindi vanno cacciati, i docenti che calpestano (“mettono sotto i piedi”) l’etica professionale.
Terzo. I docenti calpestano l’etica professionale quando, regalando (concetto valutativo di regalare) voti e diplomi ai non meritevoli, sono perseguibili addirittura per falso in atto pubblico. Aiuto, sento tintinnio di manette.
Quarto. I docenti che promuovono producono il falso, che tale risulta perché l’Invalsi produce INEQUIVOCABILMENTE il vero. Cioè, se lo dice Invalsi che Angelino o Paola (nomi di fantasia casuali) sono scarsi, non ci sono equivoci possibili. Sono scarsi. E chi dà loro la sufficienza va cacciato o addirittura arrestato.
Egregio Panebianco, per essere un inciso la vedo alquanto violento nei toni. Prima, insieme col suo sodale Della Loggia, lo vedevo alquanto dilettantesco nel parlare di scuola. Adesso lo vedo anche piuttosto feroce. La ferocia la consegno alla lettura di coloro che hanno la possibilità di scavare nel suo vissuto scolastico. Nel merito, le suggerirei di levare le chiappe dalla scrivania e consultarsi con chi di scuola, di educazione, di storia della scuola se ne intende. Lo faccia, Panebianco. Oppure se non ne ha voglia non faccia incisi. Si limiti alla politica e non ci appesti con le sue fregnacce.
La scuola “affettuosamente” in presenza

Questo rientro siculo di domani magari per due soli giorni, alle soglie della zona arancione, ha tutti i caratteri della stoltezza e di un tatticismo politico sgradevole. Il governo nazionale lunedì sera esibisce la sua prosopopea sulla scuola in presenza – ben guardandosi dall’estendere a tutti l’obbligo vaccinale – ignorando che la scuola che si profila a partire da domani sarà in presenza per metà e per metà a distanza, con mortificazione della parte a distanza, che non capirà niente di quel che si fa in classe, e di quella in presenza, che respirerà l’aria infetta dal virus a sua volta infettata dall’ansia viscerale di docenti e dirigenti che penseranno soltanto a come uscire indenni.
Ho letto qua e là, anche nei social, appelli patetici nella direzione della scuola in pseudopresenza da parte di docenti che sembrano più attraversati da pulsioni romantiche, come il nostro ministro pro tempore, che da una considerazione attenta della situazione reale. I nostri ragazzi sono trattati o come dei poveri molluschi tutti inclini al d-i-s-a-g-i-o-p-s-i-c-o-l-o-g-i-c-o da pareti domestiche (sempre meglio della trincea o dei cartoni per strada) oppure come soggetti che vanno tenuti dentro il contenitore ammorbato pur di evitare che se ne vadano in giro oppure che si pestino i piedi in casa con sorelline e fratellini.
La dispersione scolastica che la DAD procurerebbe la trasferiamo in queste aule a zero ventilazione, con alunni non contagiati ma non vaccinati, con docenti impauriti che neppure si salutano per non contagiarsi (belle lezioni…), con dirigenti impazziti e blindati nelle presidenze dietro a certificazioni e circolari. Questo permette al nostro ministro pro tempore e ai suoi seguaci (per convinzione o per tatticismo politico) di affermare orgogliosamente che la scuola resiste in presenza e che gli alunni sono tutti sorridenti (con gli occhi), perché la DAD è una “catastrofe culturale”, come ha scritto qualcuno, ed è vero: la DAD è una catastrofe culturale quando è fatta da docenti le cui lezioni in presenza sono già una catastrofe culturale.
Ministro, ma lei che “voci” ascolta?

Migliaia di presidi, sostenuti da tanti insegnanti, per il ministro Bianchi che “voci” sono? Cosa hanno di diverso dalle “tante voci che ci dicono che la scuola debba restare in presenza”? Lo dico io. Hanno di diverso che sono voci reali. Cognome e nome, scuola di appartenenza, regione. A queste Bianchi non sembra interessato. Sembra interessato invece alle altre, non meglio precisate. Chi vince la partita nel discernimento del ministro? Che nome e che volto hanno le “tante voci”?
Certamente è un altro bell’indizio del rapporto tossico che c’è tra scuola e politica. Nessun ministro è stato capace di guarirlo. Ciascuno batte in curva il precedente, quando ti aspetti che non sia possibile.
“Sono stato rimandato in Educazione Civica”

“Nel caso in cui il voto di profitto dell’insegnamento trasversale di Educazione civica sia inferiore ai sei decimi, opera, in analogia alle altre discipline, l’istituto della sospensione del giudizio di cui all’articolo 4, comma 6 del d.P.R. n. 122 del 2009. L’accertamento del recupero delle carenze formative relativo all’Educazione civica è affidato, collegialmente, a tutti i docenti che hanno impartito l’insegnamento nella classe, secondo il progetto d’istituto.” (Nota MIUR 6.5.2021)
Non ha avuto insufficienze tranne in Educazione Civica. E come fu? Fu che la professoressa di Discipline giuridiche ed economiche della 2G ha ricevuto dai suoi colleghi le valutazioni del rendimento di Fabio nei coriandoli di Educazione Civica ricavati all’interno delle varie materie. Su dieci insegnanti sette hanno valutato insufficiente il rendimento di Fabio, mentre tre lo hanno valutato positivamente. La collega non poteva fare altro che mettere a Fabio un voto insufficiente ed il Consiglio di classe, pur a fronte di valutazioni buone in tutte le materie, comprese le sette di cui sopra (sic!), ha rimandato a settembre il buon Fabio.
Che ha avuto due mesi di tempo per imparare i diritti umani, i diritti del web e i diritti dell’ambiente, che probabilmente aveva mostrato di non sapere. Insomma, per colmare le “carenze formative”. Ci pensate? Carenze formative. A settembre si riunisce il consiglio dei Dieci davanti a Fabio per chiedergli conto dell’ambiente, della legalità e del cyberbullismo. Fabio questa volta ha studiato e risponde esattamente alle domande. Il Consiglio di Classe lo decreta buon cittadino e lo promuove alla classe successiva. Se avesse fatto scena muta, ope legis avrebbe ripetuto il secondo anno delle superiori. Lo avrebbe ripetuto pur avendo raggiunto gli obiettivi di tutte le materie. Lo avrebbe ripetuto perché è stato insufficiente in Educazione Civica sia a giugno che a settembre. L’Educazione Civica non la sa. Le materie le sa. Bocciato.
Caro Ministro Bianchi,
questo scenario la persuade? Le pare plausibile? Le hanno fatto leggere la nota di Versari in quel punto? Lei mi pare che abbia parlato una volta della scuola affettuosa. Ma come non le è venuto in mente di parlare anche della scuola intelligente? La vicenda di Fabio le pare intelligente? Formativa? Se lei avesse presieduto lo scrutinio che ha rimandato Fabio cosa avrebbe detto? Avrebbe taciuto? Oppure avrebbe detto la celebre frase di Totò: “ma facciatemi il piacere!”. Ci faccia sognare, Ministro. Ci faccia sperare che abbia detto come Totò…..