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DIVIETO CELLULARI: IL NEOPROIBIZIONISMO CHE METTE LA CENERE SOTTO IL TAPPETO

“Io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri”.

Torna sempre alla mia memoria di laico questo passo di Paolo di Tarso, tratto dalla Lettera ai cristiani di Roma, quando nel mio lavoro di insegnante osservo la dinamica della Proibizione, di cui la scuola, a misura della sua perdita di credibilità sociale, sembra avidamente nutrirsi. La dinamica della Proibizione consente a chi vuole debellare un fenomeno di intervenire sulle regole. Sarebbe impensabile una scuola priva di regole. Chi potrebbe immaginare una vita scolastica ordinata se nulla fosse proibito?

L’ultima circolare del ministro Valditara non poteva che riscuotere il plauso pressoché generalizzato perché proibisce l’uso del cellulare nella scuola dai 3 ai 14 anni. E per marcare la propria perentorietà lo vieta anche per scopi didattici, aggiunta superflua perché sarebbe stato comunque l’unico ambito in cui la proibizione avrebbe dovuto concentrarsi, considerato che il cellulare in classe, durante le lezioni, già non può essere adoperato con altri scopi. Quindi la notizia non è il divieto ma gli scopi didattici.

Questa proibizione dovrebbe “togliere il male da Israele”, sempre per parafrasare l’ansia proibizionista dell’antico ebraismo certificata dal Deuteronomio.

Vietare è impegnativo. Perché chi vieta deve essere irreprensibile, pena l’indebolimento di significato del divieto, del genere “fate come vi dicono ma non fate quel che fanno”. Il mondo proibizionista degli adulti, infatti – mondo politico incluso che ne ha bisogno come il pane per gestire i consensi – non è meno dipendente dai cellulari di quanto non appaia il mondo giovanile, e a giudicare dal continuo e becero uso che se ne vede fare da persone che vanno dai 40 ai 70 anni si può trarre il convincimento che forse il pulpito ha qualcosa che scricchiola.

Si dirà che il divieto riguarda i più piccoli, ma qualcosa non torna ugualmente, perché consentire al quattordicenne liceale quel che è vietato al ragazzino che era prima non toglie proprio nulla da Israele, ovvero non rende il quattordicenne più saggio.

Seguendo la logica paolina infatti è abbastanza verosimile che il divieto aumenti a dismisura la voglia di trasgressione dei più piccoli, ai quali le insegnanti e gli insegnanti del primo ciclo dovrebbero spiegare perché loro no e gli adulti sì. Impossibile infatti immaginare un esercito di docenti del primo ciclo che dalle 8 alle 14 ignori il proprio cellulare: ci sarà sempre un tecnico della lavatrice, una madre anziana, un postino, un corriere di Amazon che non passeranno mai dal centralino della scuola. E allora che si fa?

I social sono il luogo-principe della chiacchiera da stadio. E nella logica dello stadio si è visto chi ha denigrato la circolare del ministro perché Valditara è di destra e quindi appariva naturale contestarlo anche se avesse detto che la terra gira attorno al sole; e chi vi ha inneggiato come alla panacea di tutti i mali del secolo, perché all’uomo comune la Proibizione – naturalmente inflitta agli altri su questioni che non lo toccano – dà una sorta di vertigine educativa insopprimibile.

Posture come quella che qui assumo invece sono molto più soggette a critiche perché sfuggono a quel genere di chiacchiera e peraltro hanno un’impronta antiproibizionista. Infatti sono convinto che in educazione ogni proibizione abbia respiro corto: vinci la battaglia, ma non vincerai mai la guerra. In politica questa attitudine al proibire (tra cui chiudere porti ecc.), che è un’attitudine muscolare, si chiama generalmente propaganda. Sono ormai più di venti anni che i ministri tentano di fare la guerra ai cellulari, con lo sguardo miope di chi non immagina che una circolare ministeriale del 2070 proibirà l’ingresso nelle scuole senza il cellulare, come oggi è proibita la partenza in aereo senza documento di riconoscimento.

L’alternativa alla proibizione è nota a tutti, ma ha scarso successo perché costa troppa fatica e forse esige una professionalità docente di un certo tipo. Il dispositivo da proibire va infatti guardato in faccia, tutti insieme, per capire dove ci frega e dove ci avvantaggia. Ci sono momenti della lezione in cui lo poseremo perché il focus è altrove, e anche questo riporre il cellulare sarà educativo, con un’enfasi quasi liturgica, perché tutti capiranno quando è il caso e quando non lo è. Poi lo prenderemo tutti insieme perché ci serve andare a cercare qualcosa che ci serve oppure perché vogliamo imparare il suo utilizzo per studiare meglio.

Essendo un dispositivo di uso quotidiano che poi, dalle 14 in poi, userebbero comunque, si tratterebbe di metterlo a tema in classe, come tutte le cose “pericolose” che a scuola vengono guardate in faccia per capire in cosa consista la loro pericolosità. Diventiamo dipendenti da qualcosa senza cui non riusciamo a vivere. Non è che toglierla dai radar vuol dire eliminare la dipendenza. Ti posso togliere la “roba” e farti impazzire dal desiderio di averla, ma non ho risolto il problema se non lavoro sulle ragioni della dipendenza. Significa mettere la cenere sotto il tappeto.

State buoni se potete (politically correct)

Che idea diffusa c’è sul “manifestare”, sul “dissentire”? Può esserci spazio per un politicamente corretto del manifestare? Certo ci sono delle regole cui nessuno può venir meno. Da un lato. Dall’altro c’è che l’indignarsi, a meno che non sia una buffonata, presuppone rabbia, sdegno, voglia di cambiare le cose.

Quanto ci si lamenta dell’apatia dei nostri ragazzi? Non si indignano per niente, sono indifferenti, sono abbarbicati al cellulare. Ma il mondo degli adulti davvero si lamenta di questo oppure sotto sotto lo benedice? La discussione dei docenti al momento del voto di condotta sembra esemplare. L’alunno che dissente dal modo di insegnare del docente difficilmente avrà “dieci”. Di più: c’è anche l’alunno un po’ “vivace” che paga pegno e magari si prende il suo “nove”, se non “otto”, perché ha subito qualche nota.

Siamo davvero convinti di desiderare alunni capaci di “esagerare”, che è quella situazione in cui ci si trova quando si è incazzati? Oppure abbiamo tanta voglia di alunni buoni, ubbidienti, diligenti, che rompono il meno possibile? Di quale immaginario si nutrono i cittadini?

La verità è che la nostra educazione resta tutto sommato perbenista e normalizzatrice. Sono rari gli insegnanti che col monello discutono. Tanti ancora sanzionano. Convinti che la sanzione sia un rimedio alla monelleria, ammesso che questa sia tale. La sanzione punitiva a scuola è legittima? Senza dubbio. Ma il criterio di legittimità sul piano educativo non sempre è il criterio vincente. Perché poi dietro presunte legittimità si nasconde il manganello.

Nell’immaginario educativo non ha ancora trovato posto un’idea di educazione dialogica, capace anche di rischiare che la monelleria abbia il sopravvento pur di mantenere la relazione. Insomma un’educazione non violenta.

State buoni se potete

I ragazzi manifestanti subiscono manganellate dalle forze dell’ordine. Indignazione generalizzata, persino dal Quirinale. Sacrosanta. Però occorre fare un passo ulteriore. Che idea diffusa c’è sul “manifestare”, sul “dissentire”? Può esserci spazio per un politicamente corretto del manifestare? Certo ci sono delle regole cui nessuno può venir meno. Da un lato. Dall’altro c’è che l’indignarsi, a meno che non sia una buffonata, presuppone rabbia, sdegno, voglia di cambiare le cose.

Quanto ci si lamenta dell’apatia dei nostri ragazzi? Non si indignano per niente, sono indifferenti, sono abbarbicati al cellulare. Ma il mondo degli adulti davvero si lamenta di questo oppure sotto sotto lo benedice? La discussione dei docenti al momento del voto di condotta sembra esemplare. L’alunno che dissente dal modo di insegnare del docente difficilmente avrà “dieci”. Di più: c’è anche l’alunno un po’ “vivace” che paga pegno e magari si prende il suo “nove”, se non “otto”, perché ha subito qualche nota.

Siamo davvero convinti di desiderare alunni capaci di “esagerare”, che è quella situazione in cui ci si trova quando si è incazzati? Oppure abbiamo tanta voglia di alunni buoni, ubbidienti, diligenti, che rompono il meno possibile? Di quale immaginario si nutrono anche i ragazzi delle forze dell’ordine, senza che necessariamente debbano avere avuto ordini dall’alto?

La verità è che la nostra educazione resta tutto sommato perbenista e normalizzatrice. Sono rari gli insegnanti che col monello discutono. Tanti ancora sanzionano. Convinti che la sanzione sia un rimedio alla monelleria, ammesso che questa sia tale. La sanzione punitiva a scuola è legittima? Senza dubbio. Ma il criterio di legittimità sul piano educativo non sempre è il criterio vincente. Perché poi dietro presunte legittimità (manifestazione non autorizzata ecc.) si nasconde il manganello.

Il poliziotto che manganella è figlio di un immaginario in cui non ha ancora trovato posto un’idea di educazione dialogica, capace anche di rischiare che la monelleria abbia il sopravvento pur di mantenere la relazione. Insomma un’educazione non violenta, quale magari i nostri giovani poliziotti non hanno ricevuto.

Il ministero meritevole e moralizzatore

Il ministro protempore della scuola emana una circolare in cui ribadisce il divieto di uso del cellulare a scuola. Che è una formulazione essenzialmente inesatta. E’ il divieto di abuso, non il divieto di uso. Che gli abusi di qualsiasi genere siano vietati è un’ovvietà. Infatti poi non può (perché non deve) fare a meno di precisare che per fini didattici e formativi autorizzati dal docente i cellulari si possono usare. Il dibattito stucchevole è partito, molto spesso dopo una lettura superficiale del testo ed una sostanziale ignoranza del suo sovrascopo. Sono anni che la stessa politica ministeriale enfatizza le competenze digitali. Si fa formazione ai docenti sull’uso formativo dei dispositivi personali. Qualcosa non torna. Già nel 2007 il dimenticato ministro del centrosinistra Fioroni, che mai e poi mai l’attuale ministro avrebbe desiderato citare se non fosse per portare avanti il sovrascopo della circolare, aveva inneggiato al ritorno della serietà. E adesso i cultori della serietà tornano ad occuparsi della scuola, quando proprio i loro sodali ed essi stessi ammorbano ogni giorno l’aria che si respira con gli squilli dei loro cellulari. Nel 2007 ad un convegno sulla scuola che si svolgeva nelle Marche cui ho presenziato un esperto di scuola rivolse la parola al ministro Fioroni che per tutta risposta si alzò e si appartò per parlare al cellulare. Quanto dire.

Che in classe un alunno possieda o non possieda il cellulare è un problema di chi insegna. Tenerlo nelle mani e fare altro rispetto a quanto viene insegnato è sbagliato ma non c’è bisogno della circolare ministeriale per capirlo. Tante cose sono sbagliate a scuola: anche studiare Matematica mentre c’è Filosofia, ma nessuno vieterebbe di portare il libro di Matematica. Anche pensare ad altro mentre si spiega, ma nessuno vieterebbe di portare a scuola il cervello.

La finiscano i politici di compulsare il sistema con circolari il cui sovrascopo è solo quello di annunciare a benpensanti sparsi qua e là – inclusi docenti che in classe avrebbero comunque seri problemi a farsi seguire – il ritorno della serietà. La parola divieto è molto seduttiva, si sa. Solletica l’immaginario dell’uomo della strada e lo illude che vietare significhi risolvere. La solita pantomima delle soluzioni semplici a questioni complesse. Se a scuola c’è noia e desiderio di fare altro non sarà la sparizione del cellulare, cioè della tentazione di fare altro, che risolve il problema. Il problema è la noia, e la noia è una questione relazionale, educativa e didattica. Che si affronta discutendo sui saperi della scuola, sulla pedanteria di troppi insegnanti, su una caricatura di valutazione che ancora fa medie aritmetiche e sulla burocrazia che ormai appesta la vita degli insegnanti distraendoli dal cuore della loro professione, che resta culturale. La scuola affonda ed il ministro sequestra i cellulari. Non so se il riso o la pietà prevale, diceva il poeta recanatese.

Caro ministro, ci levi mano. Glielo dice un docente che usa e fa usare il cellulare in classe perché in classe si studia, si ricerca e si dibatte. E oggi non si studia, non si ricerca e non si dibatte senza il supporto di un cellulare. C’è in classe il libro e c’è il cellulare. Entrambi si aiutano e tutti siamo più istruiti. Il cellulare lo usa anche lei ed i suoi colleghi politici. Lo usano gli insegnanti e i dirigenti. Sempre. Perché vivono nel loro tempo. Che distragga o non distragga dal proprio dovere fa parte dello scenario cognitivo in cui anche a lei tocca vivere. La sua circolare non dice niente di più di quanto è ovvio, cioè che è vietato fare un’altra cosa rispetto a quella che si ha il dovere di fare. La spieghi ai suoi colleghi parlamentari, quando si sta lavorando per il bene comune e si fanno gli affari loro dentro il loro cellulare. La spieghi anche ai dirigenti, che lo usano durante le conferenze di servizio, e ai docenti, che lo usano durante i collegi dei docenti. Nel caso dei ragazzi, la monelleria ricade su di loro, nel caso degli adulti la monelleria ricade su tutti noi.

Il gioco delle tre didattiche

LIVELLIDIP*DIMDAD
RELAZIONI PERSONALI210
COMUNICAZIONE ORALE211
COMUNICAZIONE SCRITTA221
QUALITA’ E DURATA SPIEGAZIONI DOCENTE211
PSICOFISICO STUDENTI210
PSICOFISICO DOCENTE211
COOPERAZIONE STUDENTI210
DIBATTITO IN CLASSE211
UTILIZZO DIGITALE122
INNOVAZIONE DIDATTICA112
INCLUSIONE SVANTAGGI210
SICUREZZA CONTAGIO212
TOTALE22/2414/2411/24

*Si intende in assenza di pandemia

Legenda:

2 – Buono / 1 – Sufficiente / 0 – Scarso

DIP – Didattica in Presenza

DIM – Didattica in Mascherina

DAD – Didattica a Distanza

VALUTAZIONE

Nel raffronto tra le didattiche mi appare nettamente preferibile la Didattica in Presenza in condizioni normali, senza distanziamenti e mascherine, che in questa fase è impossibile. Nel raffronto tra le due altre didattiche oggi possibili, cioè la DIM e la DAD, l’esperienza condensata nella tabella mi porta a ritenere che la Didattica in Mascherina superi la Didattica a Distanza di una misura nettamente inferiore a quanto invece la separa dalla Didattica in Presenza. Il che porta a ritenere che, con l’aumento del rischio e con una decisa disponibilità a mettere da parte ossessioni valutative e fissazioni enciclopediche, per periodi circoscritti la DAD sia preferibile alla DIM. Anche per fare rientrare sia pur temporaneamente nella didattica il sorriso, che per alcuni docenti è inessenziale perché non sanno ridere e non hanno motivi per ridere e soprattutto far ridere.

Per eventuali approfondimenti sulla Didattica in Mascherina rimando al mio intervento sulla rivista del CIDI Insegnare.

A chi la racconterete?

LA REPUBBLICA ED. DI PALERMO DEL 31.7.2021

Un libro necessario ed esemplare

Ci sono libri che a leggerli danno soddisfazione. È il caso di Homo sum (sottotitolo: Essere “umani” nel mondo antico) scritto dal classicista Maurizio Bettini e pubblicato da Einaudi del 2019. E la soddisfazione aumenta nel passare in rassegna le persone che hanno contribuito, per esplicita ammissione dell’autore, alla realizzazione di questa perla di enorme valore culturale, figure di studiosi del meridione, ed in particolare palermitani a me cari come Isabella Tondo, Andrea Cozzo e Giusto Picone.

Il contenuto è pregevole di suo. Bettini esplora il senso di umanità dei Greci e dei Romani alla luce della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e soprattutto alla luce della politica salviniana di chiusura ai migranti che era attiva – e da lui radicalmente esecrata – nel momento in cui scriveva. Tanti spunti di riflessione, tante testimonianze provenienti dalla classicità e anche dall’ humus biblico cristiano. Si legge di un fiato e si gode di ogni parola.

Ma la bellezza non si ferma qui. La bellezza continua con l’approccio di Bettini al suo stesso sapere. Mai accademico, mai paludato, mai pedante, come quello che ahimè si vede nelle facoltà umanistiche e – ancora più ahimè – nei nostri licei classici. L’approccio di Bettini al mondo antico resta quello che consente allo stesso di rivelarsi davvero come fondativo: è l’approccio culturale. L’unico cioè in grado di rendere feconda quell’ esperienza perché capace di leggere il contemporaneo e dal contemporaneo farsi rileggere. C’è filologia, diritto, storia e letteratura, ma tutto rifluisce in cultura e in passione civile, quella che lo stesso Bettini riconosce a coloro che lo hanno sostenuto nel lavoro.

È un libro che parla dell’umanità con umanità. Con rigore di studio, chiarezza espositiva e desiderio di giovare. Per questo è un libro educativo. Non solo per i temi che tratta, ma anche e soprattutto per quel modo di far rivivere le testimonianze antiche che davvero convince dell’irrinunciabilità dei Greci e dei Romani molto più delle trite lamentazioni di docenti liceali che ti metto quattro perché non mi hai saputo ripetere l’aoristo.

Due spunti, di contenuto e di metodo, voglio lasciare qui per invitare a questa godibilissima lettura. Il primo riguarda la sostituzione del costrutto “diritti umani” con “doveri umani”. È il filo rosso che percorre il testo, ed è un chiaro mutamento di paradigma che gli antichi ci consegnano. Il secondo è un monito che riguarda le sorti dell’insegnamento della classicità e va rivolto soprattutto agli insegnanti più giovani, il cui zelo pedante troppo spesso rischia di mettere a repentaglio proprio ciò che quello zelo vorrebbe mantenere: “I tempi sono molto cambiati da quando le letterature classiche potevano, o dovevano, essere considerate solo un elegante patrimonio di figure poetiche o letterarie” (pag. 106).

Questo libro ci riporta a quell’umanesimo civile, di matrice dantesca, che considerava la cultura (costitutiva dell’ humanitas latina) quale nutrimento della vita civile e politica, quel che oggi viene chiamato dalla retorica ministeriale cittadinanza. Credo necessario che ognuno lo legga, e forse non solo una volta. Basterà il solo primo capitolo, che rivisita il primo libro dell’Eneide e l’accoglienza riservata ai profughi troiani dalla regina Didone, per fare venire voglia di arrivare fino alla fine.

Continueremo a volare basso?

Da tempo denuncio la carenza di dibattito pubblico sui temi dell’educazione e dell’istruzione. Paradossalmente fece più parlare di scuola la (brutta) legge sulla Buona Scuola. Oggi è calato il buio sui temi forti. Gli unici linguaggi sembrano il politichese delle ordinanze ministeriali ed il sindacalese della maggior parte dei siti, che giustamente per reclutare lettori devono solleticare l’impiegato che è in ogni insegnante. E poi cronache occasionali: manifestazioni ecologiste e alunni beccati con spinelli. La formazione, che dovrebbe aiutare tutti a mettere a fuoco i fondamentali dell’insegnamento, è il grande bluff: obbligatoria, strutturale e permanente, dissero: 2015. Ma c’è una piattaforma, Sofia, strapiena di cose e cosacce che nessuno controlla ed il popolo dei docenti che ormai ha mangiato la foglia e ha capito che di obbligatorio non c’è proprio nulla. I Dirigenti che dovrebbero presidiare il cosiddetto obbligo, si sa, hanno quasi sempre “impegni istituzionali”. Chiamano qualche esperto ogni tanto e poi si rassegnano al grigiore. Gli Ambiti territoriali fanno la formazione ad anno scolastico quasi concluso e con i formatori che vogliono adattarsi a cifre (con tutto il rispetto) da colf. Alla politica: dimmi quanto paghi i formatori e ti dirò che pensi della formazione.

Ma la resistenza umana ci tocca, e questo blog cerca pervicacemente di stare in prima linea.

Per questo mi permetto di suggerire alle colleghe e ai colleghi più sensibili un kit di autoconsapevolezza dal titolo: Tra saperi, competenze e democrazia oltre la tecnocrazia delle misurazioni: c’è spazio per un nuovo umanesimo professionale? Mi faccio guidare in questo piccolo viaggio da tre Virgilio: Umberto Galimberti, Enrico Bottero e Philippe Meirieu. So di sfidare la tendenza, che ormai prende anche i miei coetanei, tutti indaffaratissimi, alla lettura breve. Questa è invece scientemente una lettura che prende tempo, che chiede riflessione, che chiede rivisitazione delle proprie ragioni professionali profonde. Una lettura che pretende di essere (auto)formativa. Con evidenziatore e matita. E che chiede agli enti, che di formazione si occupano, di alzare le antenne oltre il Digitale, il BES, gli Esami di Stato, l’Alternanza, il Miglioramento, l’Invalsi e altra materia più o meno effimera che costituirebbe le “priorità” 2016-2019 (a proposito, triennio concluso: cosa è successo?).

***

Percorso in tre tappe.

Prima tappa: la cultura umanistica. Serve ancora una cultura umanistica? Galimberti è sempre utile, soprattutto quando permette di ragionare sul suo lessico: educazione, istruzione, formazione, competenze, prestazioni. Denuncia la presunta scomparsa della cultura umanistica a favore delle “molte competenze”. Poi però, con la solita ambiguità del termine, l’alunno dovrebbe fare i conti con “quella competenza che la cultura umanistica offre”: è la competenza emotiva. Aggiungo: quella creativa, come evidenzia questo bel documento.

Seconda tappa: le competenze che servono e la tecnocrazia. Meirieu e Bottero discutono di apprendimento. Dialogo sapiente, istruttivo, che fa giustizia sull’equivoco legato alle competenze. Da leggere e rileggere, anche più di una volta. Bottero da tempo fa obiezione di coscienza verso la lingua tecnocratica che ha invaso le nostre scuole. La sua alleanza con Meirieu è quanto di più prezioso io abbia visto ultimamente per la scuola.

Terza tappa: perle sull’apprendimento. Un concentrato di sapienza è nel libro di Meirieu edito nel 2011 in francia, nel 2015 qui da noi: Fare la Scuola, fare scuola. Francoangeli. Cartaceo. Un buon modo di utilizzare la Carta del docente.

Per invogliare alla lettura dei contributi proposti propongo qui brevi stralci di ciascuno di essi:

Galimberti: “L’educazione a sfondo umanistico non è necessariamente il rimedio al disagio giovanile, ma è senz’altro un aiuto perché questo disagio non diventi parossistico e non si traduca, se non in tragedia, in quei percorsi a rischio che spesso i giovani imboccano perché non hanno alcuna consapevolezza di sé e non intendono assaporare quotidianamente la loro insignificanza sociale”

Bottero: “Misurare le competenze raggiunte dagli allievi servirebbe a valutare i loro risultati. Volendo ‘misurare’, la competenza potrebbe snaturarsi e ridursi ad una semplice performance. Questo sospetto è avvalorato dal fatto che il concetto di competenza, come la pedagogia per obiettivi, è entrato nella scuola sotto la spinta del mondo dell’impresa”

“La scuola pubblica non ha il compito di far emergere i migliori  ma di far crescere le conoscenze di tutti. Essa è il luogo principale in cui si promuove l’apprendimento generale operando così per la riduzione delle disuguaglianze”.

Meirieu: “I saperi generalmente trasmessi a scuola non hanno nulla a che fare con i saperi scientifici. Sono saperi proposizionali, cioè un insieme di saperi espressi attraverso semplici contenuti, in molti casi privi di significato per l’allievo. Il loro contenitore simbolico è il manuale scolastico”.