Archivi categoria: Cultura e società

800 anni col Cantico di Frate Sole

Francesco d’Assisi finisce per essere attuale in quanto inattuale. A scuola, quando si inizia la Letteratura italiana, si comincia proprio da lui, perché è il primo che vuole fare opera di letteratura nella lingua che parla la gente. Quel Cantico lo volle messo in musica ma la musica non l’abbiamo. Abbiamo però il capolavoro di Angelo Branduardi, composto nell’anno del Giubileo 2000, un album dal titolo “L’infinitamente piccolo” che ripercorreva la spiritualità di Francesco. In questi giorni la cantautrice Patrizia Cirulli, ancora nell’anno del Giubileo, ha rivisitato l’album di Branduardi producendone una versione molto accattivante dal titolo “Il visionario”.

Francesco è vivo, si direbbe. Vivo ed attuale perché in quel Cantico del 1225 sembra aleggiare paradossalmente la più profonda inattualità. Ed ogni inattualità rappresenta la sfida ad autocomprendersi. Persino al suo tempo, per certi versi, il Cantico poteva apparire inattuale. Francesco, gravemente malato ed in punto di morte, celebra Dio in ciò che lo rende presente tra gli umani. L’immaginario medievale era propenso a svalutare le realtà di questo mondo in omaggio alla trascendenza di Dio, ma questo testo rappresenta un vero gesto eversivo, perché eleva uno sguardo pieno di stupore e di ammirazione verso tutto ciò che di materiale ci circonda. E’ lo sguardo di un fanciullo, ovvero di chi è reso fanciullo di fronte alle eccedenti meraviglie prodotte dall’ “Altissimu, onnipotente bon Signore” del primo verso.

Di fronte alla bellezza del creato, l’uomo si fa fanciullo, e diventa capace di vedere lo splendore del sole, della luna e delle altre stelle, la fecondità del clima, la preziosità dell’acqua e del fuoco, la “maternità” della terra. Le cose per Francesco non sono ovvie, ma sono “belle”, e questo Cantico aiuta a riscoprire la bellezza delle cose che ci permettono di condurre la nostra esistenza. Qualsiasi fuga spiritualistica dal mondo riceve da questo testo una fiera contestazione. Inattuale appunto.

Il verso riferito al sole “De te, Altissimo, porta significatione” è chiave di lettura del testo. Ogni cosa per Francesco è portatrice di un’eccedenza di senso. Gli elementi della natura certamente,  ed i viventi tutti che la natura sostiene, ma anche gli esseri umani portano qualcosa di Dio con sé, come segnala la terza ed ultima parte del testo, aggiunta forse successivamente in virtù dell’aggravarsi delle condizioni di salute del santo.

Sii lodato, mio Signore, in coloro che sanno perdonare in nome del tuo amore e sanno sostenere malattie e sofferenze nella pace. E che sanno affrontare la morte confidando  nella tua misericordia. Quella morte “da la quale nullu homo vivente pò skappare”. Anche la morte è ricondotta alla visione riconciliata con l’esistenza che Francesco ci offre. Tutto è riconciliato nella gioia esistenziale espressa dal fraticello di Assisi, natura, spirito, vita e morte. Ogni attenzione per la concretezza del vivere e del sentire ha in questo testo radici forti.

Meraviglia ed essenzialità. Tempi in cui tutto si sa e si può sapere e di niente ci si meraviglia, tempi in cui l’essenziale è sommerso dal visibile e dal superfluo e tempi di sistematica devastazione ecologica, leggono il Cantico come qualcosa di opaco, che non ha diritto di cittadinanza. Quasi un secolo dopo la morte di Francesco, Dante Alighieri disegnava la vita di Francesco dentro un discorso sulla Sapienza (canto XI del Paradiso). Dante individua nella povertà il centro unificante della sapienza francescana, fino a raffigurare il rapporto tra Francesco e la povertà come un rapporto amoroso. La vita di Francesco si è svolta sotto il segno della sottrazione, che rappresenta il paradosso cristiano, per il quale si guadagna se si perde e si perde se si guadagna. La povertà francescana è prima di ogni cosa povertà dello spirito umano dinanzi all’avere, al potere e al sapere. L’opulenza cui si fa fatica a rinunciare è sfidata da questa pennellata dantesca, che individua in Francesco l’emblema di una vita gioiosa nella sottrazione. Imparare ad usare il segno meno sembra la vera sapienza. 

Leggiamo: Chiara Frugoni, Vita di un uomo: Francesco di Assisi (Einaudi 1995); Chiara Mercuri, L’avventura di un povero cavaliere del Cristo. Frate Francesco, Dante, madonna Povertà (Laterza 2023); Intervista di Chiara Mercuri a Franco Cardini del 15.03.2025.

I molti modi danteschi di amare

Forse è l’autore in cui la parola è maggiormente presente. L’autore è Dante e la parola è amore. Sembra che per il poeta fiorentino ogni aspetto della vita umana abbia a che fare con l’amore, inteso come una forza propulsiva ancestrale. In un prezioso volumetto dal titolo Amore (Treccani 2021), Emilio Pasquini e Guido Favati offrono una rassegna dettagliatissima delle accezioni del termine. Sono tanti gli attributi che definiscono il tipo di amore che Dante volta a volta chiama in causa, ma quelli che hanno attirato maggiormente la mia attenzione e suscitato il mio desiderio di esplorarne le potenzialità di scandaglio dell’animo umano sono quattro: intellettuale, passionale, sublimato, mistico. Altri attributi potevano essere utilizzati: agapico, redento, cosmico ecc. Poi c’è l’amor che move il sole e l’altre stelle, che forse agli occhi di Dante fonda tutti gli altri “amori”.

Il viaggio alla scoperta delle forme dell’amore dantesco ha trovato una sponda preziosa in un luogo che da anni studia il Medioevo: l’Officina di Studi Medievali, a Palermo in via del Parlamento. In quel luogo, grazie all’affettuosa ed efficace cooperazione di Diego Ciccarelli, Giuseppina Sinagra e tutto lo staff dell’istituto, ogni mese scaviamo in una forma di amore dantesco. Abbiamo esplorato l’amore intellettuale e l’amore passionale. E’ emersa nel primo seminario la profonda indissolubilità tra intelletto e amore in Dante, profondamente persuaso che si può amare solo ciò che si conosce e si può conoscere solo ciò che si ama, in una circolarità nutritiva e contestatrice di ogni dicotomia tra cognizione ed emozione. E’ emersa nel secondo seminario la forza travolgente della passione amorosa – esemplificata nel celebre episodio infernale di Paolo e Francesca – ed il suo potenziale, sempre  agli occhi di Dante, di disumanizzazione. Compare già a questo livello il ruolo decisivo del “fedele consiglio de la ragione”, che il poeta auspica, nel suo libello Vita Nova, pur all’interno dei vortici amorosi.

Ecco, questo è quel che avviene ogni mese presso l’Officina di Studi Medievali di Palermo. In tempi di frenesia efficientistica provo a creare spazi di profondità, incursioni in paradigmi lontani del tempo, degustazioni di poesia e di filosofia. Trovate spazio, vi aspetto!

Giusto e ingiusto: Dante parla ancora

Monreale, Settimana di Studi Danteschi, 25 ottobre 2024

Maurizio Muraglia

O sommo Giove

    Nel sesto canto del Purgatorio Dante si scaglia contro le città italiane. Le città dell’Italia sono in perenne conflitto tra loro, preda di violenze ideologiche che arrivano anche a produrre crudeltà estreme, come si è visto con la vicenda del conte Ugolino (Inf. 33).

    Al centro dell’attenzione dantesca sta il male. Qui osservato nel suo manifestarsi politico, come conflittualità civile e caos istituzionale. La gente si odia (vieni a veder la gente quanto s’ama). Il mondo è sovvertito, ed i valori in cui Dante crede sono calpestati. L’autorità politica latita e, quando non latita, l’autorità ecclesiastica la ostacola nel suo compito di garantire ordine, armonia e benessere. E’ l’autorità politica, secondo l’impostazione del dantesco De Monarchia, quella preposta a garantire la felicità terrena.

    Di fronte all’imperversare dei conflitti politici, lo sguardo di Dante si rivolge al cielo, alla giustizia divina:

    118 E se licito m’è, o sommo Giove
    che fosti in terra per noi crucifisso,
    son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

    Nel Medioevo Giove era diventato un nome comune, e ci si poteva permettere letterariamente di chiamare il Dio cristiano col suo nome. La domanda di Dante è la tipica domanda dell’uomo biblico di fronte al male. E’ anche la domanda dell’ebreo ai tempi dell’Olocausto: Dio, dove sei? Perché guardi altrove? E’ una domanda legittimata dal verso  che coerenza c’è tra la presenza del male del mondo e l’amore che Dio ha per gli uomini, testimoniata dalla sua incarnazione e crocifissione? Se Dio è bene, perché c’è il male? L’uomo che ama la giustizia e vede l’ingiustizia, sentendosi impotente, non può che indignarsi. E’ esperienza di ciascuno.

    E dopo, quasi a sintetizzare in una sola terzina tutta l’invettiva precedente, Dante esclama:

    Ché le città d’Italia tutte piene
    son di tiranni, e un Marcel diventa
    ogne villan che parteggiando viene.

    Le città d’Italia sono tutte piene di figure dal potere illegittimo. Tiranni. Capi di fazione giunti alla signoria delle città. Anche Marcello era un capo fazione che ambiva al potere nell’antica Roma contro Cesare, e a diventare capo fazione per Dante può essere un qualsiasi campagnolo. Il potere di questi tiranni è sentito come illegittimo in virtù di una tavola di valori superiore, che fa perno sull’amore. Il grande assente dalla scena politica del tempo di Dante.

    Giustizia e Ingiustizia

    Antigone e Dante guardano al mondo e ai poteri del mondo con la coscienza dell’Ingiustizia. Entrambi subiscono l’ingiustizia delle leggi umane. Antigone si ribella e si fa giustizia da sé seppellendo il fratello Polinice. E pagando il prezzo di questa ribellione. Anche Dante paga un prezzo salato per l’ingiustizia politica. Il suo esilio è il frutto di questa ingiustizia.

    Entrambi hanno coscienza di una Giustizia superiore a quella degli uomini. In nome di questa, Antigone si ribella e fa di testa sua. E pagherà. Dante è in un’altra situazione. Non può fare niente da sé per riparare l’ingiustizia subita. Quella da lui subita è un’ingiustizia, si può dire, di sistema. Il sistema politico è malato. Dante non può aggiustarlo. Per questo si rivolge a Dio e invoca da lui la Giustizia.

    Antigone agisce, Dante interroga: non vedi cosa sta succedendo? Perché sei distratto? L’invocazione è fatta da chi non capisce. Anzi, capisce o crede di capire come Dio vuole che vada il mondo. Ma vede che va tutto al contrario.

    Di fronte al non capire Dante si pone però con umiltà. Come Antigone, anche Dante è certo di avere Dio dalla sua parte. Perché Dio è amore, e in giro c’è odio. Dante non vuole rinunciare alla bontà di Dio e allora ipotizza che sia lui a non vedere l’intenzione di Dio. Se Dio è buono, il male è provvisorio. Nel mistero della volontà di Dio si sta preparando qualcosa di buono, del tutto incomprensibile alla nostra intelligenza.

    121 O è preparazion che ne l’abisso
    del tuo consiglio fai per alcun bene
    in tutto de l’accorger nostro scisso?

    Ora, viene da chiedersi: al posto di Antigone, di fronte alla legge di Creonte, pur sapendo che il Dio cristiano sarebbe stato dalla sua parte, Dante avrebbe seppellito il fratello in nome della legge di Dio? Avrebbe trasgredito? Non è dato saperlo.

    Obbedire o ribellarsi?

    In qualunque luogo vi sia un’autorità, chi è sottoposto si aspetta giustizia da essa. Dunque il tema è posto. E se questa giustizia non c’è, che si fa? obbedire o ribellarsi? O c’è una terza possibilità?

    Antigone si è ribellata e ha pagato. Socrate non si è ribellato e ha pagato lo stesso. Dante cosa fa? Risponde all’ingiustizia con la penna. Non si sottomette alle condizioni che gli pongono per rientrare, e ne ricava una condanna a morte in contunacia. Dante giudica. Esprime con chiarezza la propria indignazione. L’andazzo politico per lui è assolutamente censurabile. I giudizi sono sferzanti. Chi dovrebbe fare il suo dovere non lo fa. Denuncia. Non è ignavo. Interpella Dio, in due passaggi. Il primo è una vera e propria critica: dove guardi? Il secondo smorza la critica e ammette la possibilità che Dio abbia sguardo più lungo. Equidistante da due atteggiamenti: l’arroganza di chi vuole capire tutto e la rassegnazione di chi accetta tutto senza prendere posizione.

    Dante prende posizione, denuncia, si indigna e scrive. Assume una postura chiara. Si può non condividere questa sua ossessione per l’autorità imperiale, la si può anzi la si deve, perché così la storia ha sentenziato, considerare implausibile, ma non lo si può accusare di ambiguità. Ogni uomo non è obbligato a capire perfettamente il tempo in cui vive. Può sbagliarsi. Ma ha il dovere, comunque, di interrogarsi e di combattere per una società migliore. Infatti Dante fa proprio questo e non c’è in lui rassegnazione o fatalismo. C’è l’interpellanza posta direttamente a Dio, quindi c’è la rinuncia alla propria onnipotenza. Egli si manifesta povero di potere e di sapere, e per questo non dà una risposta ma rivolge una domanda senza arroganza: guardi altrove o sono io che non capisco?

    Questa postura – senza arroganza e senza rassegnazione – è interessante. Ci coinvolge. A qualsiasi età. Al male non ci si rassegna. Si denuncia con coraggio rivolgendosi a chi ha autorità. Lo ha fatto anche Antigone, ma Creonte non ha sentito ragioni ed Antigone ha agito, bypassando la legalità di Creonte in nome di un senso di Giustizia superiore. In Dante però troviamo anche il riconoscimento della possibilità di una visione più ampia, che consente provvisoriamente di perdere qualche battaglia pur di vincere una guerra. Insomma, per Dante sembra che l’ultima parola sia della legge divina. Lo fa per impotenza o per convinzione?  

    Il nostro tempo, a scuola

    Alle volte in famiglia o a scuola chi ha autorità appare ingiusto e non si capisce perché: sta guardando più lontano e magari chi non ha autorità non percepisce lo stesso orizzonte. Ma la domanda va fatta, perché ogni studente ha il diritto di non capire e non ha il dovere di obbedire senza capire. E chi a scuola ha l’autorità, a differenza di Dio, ha il dovere di spiegare la ragione di quello che allo studente appare male. Di spiegargli che il male è apparente, perché è in gioco qualcosa di buono. E deve spiegare cos’è questo qualcosa di buono. Deve negoziare, argomentare. D’altra parte anche l’arroganza è controindicata, perché va sempre ammessa la possibilità di aver uno sguardo corto rispetto a quello che sta facendo chi è al di sopra di noi.

    Insomma, la domanda ineludibile di chi non ha potere verso chi ce l’ha è questa: perché fai succedere questo? Sei distratto oppure sei attento ma guardi più lungo?

    Ecco, Dante di fronte all’ingiustizia non è un rassegnato. E nemmeno un ribelle, un eversivo, un terrorista. Dante si indigna e non si trattiene dal dire e dal domandare, non fa sconti, incalza i poteri, anche rischiando la pelle, ma riconosce la propria limitatezza di sguardo, riconosce la possibilità di non vederci chiaro. Per questo domanda, chiede spiegazioni. Non è passivo, ma è attivo di fronte all’ingiustizia. In questo “riconoscimento attivo” sta proprio la sua grandezza. E forse anche la nostra, quando ci troviamo nella stessa condizione.

    FACEBOOK, QUAL È LA TUA “RETTA VIA”?

    Ritengo doveroso far conoscere quanto accade all’interno di Facebook, il più popolare dei social. Per diciassette anni me ne sono tenuto lontano, ma a partire dal 2021 ho ritenuto che potesse essere un buon canale di circolazione delle idee, e l’ho usato solo per questo, evitando come la peste aperitivi, feste di compleanno, tramonti e altra materia futile. I miei post hanno sempre avuto un carattere garbato e rispettoso, anche quando esprimevano critiche. Mi occupo di scuola.

    Nel febbraio del 2023 questo articolo sulle famose manganellate agli studenti viene rimosso perché “fuorviante”. Quest’anno, un commento alla misura ministeriale del Capolavoro degli studenti viene rimosso perché “fuorviante”. In questi giorni, un ragionamento pubblicato su questo blog a proposito del divieto ministeriale dei cellulari viene rimosso perché “fuorviante”. Le tre rimozioni hanno qualcosa in comune? Evidente: sono delle critiche a questo governo.

    Perché, si dirà, Facebook non contiene critiche al governo? Eccome! E anche sguaiate. Accuse di fascismo, insulti e denigrazioni, tutta materia che però non risulta “fuorviante” all’algoritmo imbecille. E dunque? E dunque si scopre che se hai fatto indispettire qualcuno (o qualcuna) nella vita (e a me capita, perché ho il difetto di non mandarla a dire) questo qualcuno (o questa qualcuna) ha il potere di “segnalarti” a Facebook. La sua identità resterà anonima e tu sarai oscurato.

    In questi giorni su Facebook mi sono pronunciato su un tema innocente, la qualifica di “prestigiosa” attribuita ad una scuola. Lo spunto era la revoca della nomina a DS di Giusto Catania. Il post è rimasto un paio di giorni. Era più innocente di un francescano. Ponevo soltanto dei quesiti di ordine pedagogico-culturale. Oscurato perché “fuorviante”.

    Tiriamo le somme. Questo è un social che permette agli istinti più volgari di dire le peggiori porcherie e di oscurare invece chi ha la ventura di fare antipatia a qualcuno (o qualcuna). La segnalazione anonima mi suscita ricordi inquietanti. I naviganti di Facebook si costernano e si indignano, esprimendo stima e solidarietà, per tornare poi alle solite pratiche social nella speranza che qualcuno (o qualcuna) non si alzi la mattina e dica: “adesso basta tu non parli più”. Cioè che non capiti a loro.

    Questo accade nella nostra Repubblica delle Banane.

    Un libro che inizia il suo cammino

    Alla Casa dell’Equità e della Bellezza di Palermo oggi è avvenuta la prima presentazione del libro che accosta la Commedia attraverso cento parole-ponte tra passato e presente. Tanto affetto, tanta attenzione, tanta poesia, tanta arte e tanta musica. Gratitudine ad Adriana Saieva ed Augusto Cavadi per la loro ospitalità. Come exemplum di lettura del libro abbiamo presentato una sequenza di tre parole tratte dai primi canti delle tre cantiche: PAURA – LIBERTA’ – ORDINE. Ne è risultato un itinerario esistenziale, che dalla paura del buio interiore, attraverso la liberazione progressiva dagli impulsi inconsci verso la disunione interiore, approda all’ordine quale partecipazione dell’anima umana all’armonia cosmica. E’ il nostro modo di far parlare Dante: rigore filologico al servizio della crescita umana. Un bel pomeriggio di spiritualità laica.

    L’eterno Ugolino

    Nel Dantedì del 2024, il Palazzo del Poeta di Palermo, sede prestigiosa di eventi culturali, ha ospitato l’evento progettato da Laura Mollica, chi qui scrive e Marco Pavone, che hanno riproposto il trentatreesimo canto dell’Inferno, il canto della tragedia del Conte Ugolino. La vicenda del nobile pisano, incarcerato a tradimento e fatto morire di fame con due figli e due nipoti, ha dato spunto per riflettere sull’odio politico capace della più feroce disumanità. Chi qui scrive ha introdotto offrendo ai presenti la cornice storica e letteraria in cui si inserisce il testo dantesco con l’ausilio di immagini tratte dall’iconografia dantesca, predisposte da Laura Mollica. A seguire Mollica ha presentato una significativa rassegna dei contributi offerti dall’arte, nel tempo, alla vicenda di Ugolino, collocato da Dante nel nono cerchio tra i traditori della patria insieme all’arcivescovo Ruggieri suo carnefice, di cui divora eternamente il cranio. Laura Mollica ha poi eseguito alla fisarmonica un’aria di Bach preparando la transizione alla parte più strettamente poetica, curata da Marco Pavone, che prima ha fornito preziose suggestioni di prosodia dantesca e poi ha splendidamente declamato il canto con un suggestivo sottofondo di Gorecki, ripreso, a conclusione, dalla deliziosa fisarmonica di Laura Mollica. Un approccio multimodale che ha permesso ai presenti di rivivere la vicenda narrata da Dante e di riflettere su quanto attuale possa risultare un brano che mette eternamente in scena la crudeltà umana prodotta da ideologie che mascherano istinti brutali di vendetta. L’evento è stato reso possibile dalla impeccabile organizzazione di Rosa Di Stefano. Qui di seguito alcune foto realizzate da Stella Verde.

    Mi curo con Dante

    Tra tanti libri che riguardano Dante e che doverosamente si leggono, ogni tanto ne esce qualcuno che occorre leggere più di una volta, tanta è la profondità che trasuda dalle sue pagine. E’ il caso di questo “E d’ogni male mi guarisce un bel verso”, scritto da Fabio Stassi, pubblicato in questi giorni dalla palermitana editrice Sellerio e puntualmente segnalatomi dalla mia cooperatrice culturale Laura Mollica, fonte inesauribile di spunti, segnalazioni e stimoli interdisciplinari.

    Davvero Stassi fa respirare, perché esce dal “mondo umbratile dei dantisti” (Contini) ed entra in quello spazio in cui tanti di noi, grandi e piccoli (come me) appassionati di Dante, desideriamo entrare, che è quello della meditazione esistenziale suscitata dai versi danteschi. L’ipotesi è quella del valore curativo della poesia dantesca, a partire proprio dal primo paziente da curare che è Dante stesso, rivisitato da Stassi e dai suoi riferimenti culturali nella sua strutturale fragilità psicologica ed esistenziale, riscattata dalla potenza pittorica (e musicale) dei suoi versi. Nella prosa di Stassi, Dante è in conversazione con scrittori che, avendolo studiato ed amato (Leopardi, Mandel’stam, Borges, Eliot, Pirandello, Ungaretti, Saba, Canetti, Caproni per citarne alcuni), riescono a offrirci chiavi di lettura a volte fulminanti e capaci di suscitare anche nei non addetti ai lavori il desiderio di saperne di più. Il culmine della forza di resistenza al dolore generata dal poeta fiorentino sta nella rievocazione fattane da Primo Levi nel celebre episodio di Pikolo, in Se questo è un uomo. Da qui merita trarre un exemplum: “Non c’è stata forse, nel nostro tempo, un’approssimazione all’inferno più universale di quella di Auschwitz, nessun allontanamento o esilio più riconosciuto dalla condizione umana. Quale eco avranno avuto, per Primo e per Pikolo, quei due versi, ‘fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza’? Perché è proprio nei luoghi più estremi, nei luoghi di pena e di detenzione, negli ospedali, nelle carceri, nei lager, che la poesia mostra tutto il suo sorprendente potere salvifico. Nei penitenziari dotati di una biblioteca, la percentuale dei suicidi cala drasticamente: un verso, anche un singolo verso, può salvare una vita, restituire l’umanità che si è smarrita o ci è stata tolta”. (pp.86-87)

    Insomma, un libro come questo è davvero quel che serve ad uscire dal recinto talvolta asfittico degli specialisti. Ne consiglio la lettura non solo ai dantisti confinati nell’elitaria erudizione dantesca, ma a tutti coloro che hanno amato e amano Dante, inclusi ovviamente gli insegnanti, e non solo di Lettere, che hanno a cuore la poesia. “La scomparsa della poesia è un altro dei grandi cambiamenti climatici della nostra epoca, e come tutti i mutamenti in corso non è stato ancora indagato a fondo. Ma è alla base di tanti malanni, d’ogni genere, perché la poesia ha a che fare con la bellezza e con il piacere: del linguaggio, della parola, dell’amicizia. Per usare un termine dantesco, con i piaceri del convivio, dello stare bene insieme, nel modo corretto, e dunque con il ben essere, con la salute nel senso letterale di salvezza, con la Beatitudine. Dante ne era consapevole e lo scrive in un’altra lettera a Cangrande della Scala: il fine di tutta la Commedia ‘ consiste nell’allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità’. (pp.103-104)

    Murgia superstar? Ma la libertà non è una passeggiata

    La scomparsa di Michela Murgia, come avviene di solito per tutte e tutti coloro che pongono un segno riconoscibile nel discorso pubblico, ha generato articoli e commenti sulle testate giornalistiche, dibattiti anche aspri sui social ed in generale espressioni di stima anche da parte di aree intellettuali a lei avverse. Non essendo un esperto di Murgia, perché non ho mai letto alcun suo libro, ma seguendola qua e là nel dibattito pubblico, ho cercato di rendermi conto di quale fosse (e ancora sia mentre scrivo) la posta in gioco delle celebrazioni o, per meglio dire, la valenza politica del segno da lei lasciato.

    Mi è subito parso chiaro che la vita di questa donna è stata un inno alla libertà. E pertanto, come in tutti questi casi accade, pensiamo solo a Pasolini, è stata una vita divisiva. Ed è su questa platea di denigratori e plaudenti che vorrei soffermarmi, non ritenendomi in grado, per decenza intellettuale, di schierarmi tra gli uni o tra gli altri.

    Tanto si è discusso sulla sua comunità queer, che avrebbe rappresentato la forma più alta di emancipazione intellettuale ed esistenziale, che Murgia abbia messo in atto, dallo schema familiare borghese. Non mi è sfuggito neppure il forte impegno nella direzione di un abbattimento degli stereotipi che costituiscono il brodo di coltura della violenza contro le donne.

    Ho letto commenti provenienti da testate cattoliche come Avvenire, che con garbo e chiarezza hanno con evidenza manifestato rispetto ma preso le distanze dall’impostazione data da Murgia ai legami familiari. Niente di nuovo. Cosa deve scrivere Avvenire? Curiosamente queste prese di distanze vanno a braccetto con analoghe prese di distanze di loschi figuri della politica cui della famiglia cristiana non frega un tubo e usano il vangelo e la fede per farsi i propri comodi elettorali e aumentare consenso. Questo è squallore. Non Avvenire.

    Tuttavia ho la sensazione che anche tanti plaudenti, che ad esempio inneggiano alla diffusione del Murgia-pensiero nelle scuole, siano mossi più da un’estetica social-chic che da reale e praticata sintonia di vedute o comunanza di pratiche in tema di libertà e di abbattimento degli schemi familiari legati al sangue e ai ruoli. Deliziose signore da apericena e selfie in gommone maritate in chiesa e rigorosamente eterosessuali e monomaschili sproloquiano sulla libertà di Michela Murgia probabilmente non avendo ben letto le coordinate della propria vita, le scelte compiute, la sequenza dei no alla libertà che la loro vita testimonia. Anche qui un po’ di misura e di decenza intellettuale non guasterebbe.

    Il familismo italiano è ben celebre. Nella vita di tutti i giorni è constatabile il filo spinato eretto in tantissime famiglie borghesi tra familiari e parenti da un lato ed “estranei” dall’altro. Arruolarsi nell’esercito di Murgia solo in chiacchiera social-chic senza aver vissuto concretamente l’esperienza della comunità d’amore i cui confini non sono legati ai ruoli, mi pare operazione piuttosto banale. Forse a qualcuna o qualcuno che resta sedotto dallo schema-Murgia occorrerebbe spiegare le complesse dinamiche istituite da un’impostazione di questo genere, di cui si rischia di vedere soltanto una forma di libertà new age cui proiettare le proprie frustrazioni da ordinaria routine familiare. 

    Personalmente guardo con simpatia e ammirazione a quel modello di comunità, che rievoca – i cattolici lo dovrebbero sapere, se ancora aprono le Scritture – la relativizzazione dei legami familiari compiuta dallo stesso Gesù di Nazareth nel corso della sua predicazione. Non è il mio modello, perché ho fatto scelte diverse, perché ho seguito un’impostazione più borghese forse per scarso coraggio e debolezza di letture, ma proprio per questo adotto un profilo basso nell’urlare la mia adesione incondizionata al Murgia-pensiero e prendo le distanze dalle facili adesioni ed esaltazioni, perché la vita di Michela Murgia è stata scomoda, molto scomoda, mentre la vita delle inneggiatrici e degli inneggiatori alla libertà non mi appare spesso altrettanto scomoda.

    Una parola sull’educazione e sulla scuola. Il pensiero di Murgia a scuola calerebbe come l’acqua sul marmo. La scuola è un contenitore altamente conformista, in cui lo schema-base della famiglia tradizionale raramente è messo in discussione. Il blocco genitori-docenti su questo è molto meno discontinuo di quanto facciano pensare le lamentele dei docenti nei confronti dei genitori. Sono pesci che si fronteggiano dentro lo stesso acquario, in cui Murgia non entrerebbe mai. Non c’è libertà di pensiero nelle scuole, solo uno schema esecutivo top-down che il ceto impiegatizio dei docenti ha la preoccupazione di mettere in atto. Se fosse stata una docente che interviene in un Collegio, Murgia sarebbe stata subito emarginata e richiamata all’ordine da qualche zelante dirigente ventriloquo del Ministero. Inutile prendersi per i fondelli e sognare libertà dove non c’è.

    In conclusione, prima di inneggiare alla libertà ci si chieda che cosa vuol dire essere realmente liberi e si sia capaci di riconoscere che la libertà di tutti è molto ridotta, ed i coraggiosi alla Pasolini, alla Saviano e alla Murgia (senza scomodare Gesù, Socrate o Gandhi) si contano sulle dita di una mano. Tutte e tutti commossi al funerale di Murgia e poi tutti a casuccia col cagnolino in salotto, il maritino che nessuna mi deve toccare ed i figli, se ci sono, attorno al focolare domestico, meglio se frequentano ragazzi “sistemati”. Essere donne come Murgia non è facile. Occorre molta ascesi, molto lavoro su se stesse, molte scelte coraggiose, poca comfort zone. Appunto, molta libertà. Cose serie.