L’avanzata degli Entusiasti

“[…] L’insegnamento a distanza, in realtà, è piuttosto obsoleto e ha varie criticità. Spesso entusiasma chi ha una concezione “trasmissiva” del sapere, immaginato come un pacco da recapitare via web, facendo parti eguali fra diseguali. Rende plastica la distanza fra i figli dei ricchi (con la loro stanzetta singola, la fibra, l’iPad e la carta di credito già pronta per andare a una università vera) e i figli dei poveri a cui il ministero è riuscito a far giungere un tablet la cui webcam racconterà una cucina affollata di fratelli e adorna di angosce (e l’approdo al mondo opaco delle università telematiche e dei corsi telematici nelle università vere). Demotiva la vocazione dell’insegnante perché gli dice che un video scaricabile e un po’ di tecnologia interattiva possono rimpiazzare la maieutica educativa del “corpo (del) docente“. Avalla una riduzione “wikipediana” del sapere, ridotto a un tutorial video che somministra i come e i cosa e non riesce mai a interrompersi per domandare un perché. […]”

Questo è uno stralcio dell’articolo pubblicato a firma di Alberto Melloni su Repubblica di oggi. Lo rilancio perché lo sento molto affine a quanto a suo tempo da me pubblicato a proposito del contenuto in quarantena. La pratica della didattica a distanza mi va suggerendo ulteriori vie di ricerca che a suo tempo tenterò di strutturare, proprio attorno alla condizione del “contenuto” e del suo signore/servitore, cioè il docente.

Qui mi interessa fare due brevi considerazioni.

1. Un caro e intelligente collega mi ha accusato di essere apocalittico, e di tirare la volata a quelli che stanno in retroguardia. Chi legge con attenzione – e soprattutto conosce – sa che non è così, ma non dispiace qui ribadire che non c’è ostilità preconcetta a questo modo di insegnare. In tempo di emergenza meglio del nulla c’è questo. Quindi avanti così.

2. La seconda considerazione si lega alla prima, e si aggancia all’articolo di Melloni. Destano inquietudini, appunto, gli entusiasti, che sciorinano quotidianamente soluzioni sempre più avanzate per ridurre il gap tra le due didattiche, che non raramente coincidono con coloro che gli alunni non vorrebbero mai vedere in presenza e che trasferiscono dietro il monitor il loro desiderio insano di trasmissione di contenuti precotti, controllo esatto degli apprendimenti, valutazione docimologica premiante e punitiva. Siamo circondati da questo genere di approcci che oggi trova uno spazio più sofisticato di intervento, soprattutto se assecondato da dirigenti – e se ne vedono – ferrati soltanto di management e preoccupati di avere tutti gli adempimenti a posto per il loro portfolio valutativo annuale.

Presto una rassegna di cose intelligenti – spesso inviatemi da colleghe e colleghi preziosi – su questi temi. Sempre per resistenza umana.

 

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Insegnante, blogger di servizio

Pubblicato il 16 aprile 2020, in Educazione e scuola con tag . Aggiungi il permalink ai segnalibri. 1 Commento.

  1. Io trovo continui stimoli a cucinare le mie lezioni mentre le faccio. E poi dopo: le rielaboro e le restituisco a chi c’era e anche a chi non c’era. Non c’è nulla di precotto. Non c’è un singolo quesito che non abbia costruito ad hoc. Come fa Melloni a sapere se nelle mie lezioni vengon fuori i cosa, i come ma non i perché? Lo invito, poi potrà giudicare. In questi giorni un sacco di gente parla senza muoversi di casa come se sapesse tutto e scambia ciò che sogna o intuisce con ciò che è. La CNN comincia a parlare di virus fuoriusciti da laboratori di Whuan, prima la mette tra le breaking news, poi alla fine si ridorda di dire che non c’è nulla che faccia pensare a ciò, ma ricorda a chi di dovere che comunque le “intelligence” non smetteranno di cercare l’eventualità che la Cina debba rifondere danni. Melloni avrà anche lui nel suo piccolo il servizio di intelligence che crea la verità. Se prima nelle lezioni “normali” riuscivo a recuperare un 5% dei materiali già consolidati, ora siamo a zero virgola zero. Devo inventare esperimenti da fare in casa. Perché ora che l’insegnante è una voce lontana, in realtà la materia è più facile che sia qualcosa che esce dalle mani dello studente. Come deve essere.

    Il problema è la carenza di reciprocità, a causa della distanza. Per chi riese a partecipare è un problema che sipuò in parte limitare. Per chi, invece, non può o non vuole, c’è poco da fare. Il digital divide, o il gap socio-culturale, che per ragioni diverse e a volte concomitanti limitano la fruibilità e le possibilità di impatto positivo del “servizio erogato”, non sono attribuibili alla nostra ministra, a difetti o a ritardi della nostra istituzione scolastica, né all’indolenza degli insegnanti.
    Al primo posto metterei il fatto che le giovani generazioni sono state lasciate sprotette dall’invasione dei cosiddetti smartdevice. Dove lo smart è attribuibile esclusivamente alle aziende che li vendono associate ai vari social che li infettano. I docenti si sono lasciati ubriacare dai social e qualche scienziato pagato dai venditori ha anche stabilito che il cervello sta cambiando nella direzione dello zapping e che noi siamo dei fossili viventi che non ci sappiamo adattare ai nuovi linguaggi. Invece di limitare per legge, almeno per i giovani, la trasformazione oramai conclamata da telefonino a protesi instupidente e il trapasso dal mondo dei realia a quello dei “virtualia”, incluse le relazioni sociali, dei microcefali dal ministero hanno pompato l’idea dei “BYOD”, perché le risorse economiche potevano così andare a chi faceva corsi su videogiochi camuffati dall’altisonante “pensiero computazionale”: degli smanettoni entusiasti. Questi costavano meno dei dispositivi adeguti almeno tecnicamente alla didattica sia recettiva che produttiva (notebook o almeno tablet) e della connessione di rete gratuita da dare alle scuole e alle famiglie. Ma noi siamo un paese che parla di costituzione e principi egualitari, ma poi si affida ai privati per tutto ciò che serve strutturalmente e fisiologicamente al funzionamento dell’intera società. All’idea di competizione e conorrenza scritti nei principi costituzionali dell’europa. Ecco perché magari c’è chi rinuncia a un pasto e all’idea di dare valore alla scuola pur di possedere un celluare che costa come due o più netbook, ma nessuno che faccia la stessa cosa per avere un computer personale per accedere al mondo della conoscenza e alla scuola. Non c’è nulla che corregge la scala dei valori. Niente che aiuta chi è a corto di risorse fondamentali per l’inserimento sociale. E allora se adesso abbiamo forti diseguaglianze, non ce la prendiamo con il ministero della pubblica istruzione quando tutto intorno a tale ministero va dietro al pensiero unico.

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