I presidi e la didattica

QUALITA’ DELL’INSEGNARE E QUALITA’ DELL’APPRENDERE

CERISDI, 11.12.2014

Scarica la relazione

Attorno all’insegnare e all’imparare si coagulano tutte le dimensioni dell’impresa scolastica e tutte le competenze professionali in gioco nel sistema di istruzione. Per questo un discorso sulla qualità – e sulla geografia di significati chiamati in causa dall’idea di qualità – deve interrogarsi sulle condizioni necessarie a rendere qualitativo l’insegnamento e l’apprendimento.
Si tratta di condizioni di varia natura che interagendo costituiscono un sistema complesso, all’interno del quale le condizioni pedagogiche e didattiche risultano essere causa ed effetto al contempo delle altre variabili. Intanto occorrerebbe, sul terreno epistemologico, distinguere, ma non separare radicalmente, l’aspetto pedagogico – o educativo – da quello didattico, ricordando che la mission precipua della scuola resta quella di istruire. L’aspetto educativo, gramscianamente, è insito in una istruzione che presenti determinati connotati valoriali. La scuola ha in comune con la famiglia gli aspetti educativi dell’istruzione, e le migliori sinergie con essa avvengono quando vige il rispetto reciproco tra le due componenti. Spesso gli insegnanti modellano la loro progettazione didattica e i loro criteri valutativi sulle aspettative delle famiglie, ma si tratta di un’aberrazione. Sarebbe come se la scuola pretendesse di regolare gli stili di vita della famiglia. L’orizzonte dell’ “istruzione educativa” quindi è quella che ci permettere di accedere allo spazio della qualità dell’insegnare e dell’apprendere, che cerco qui di delineare sommariamente, in vitro, per poi valutare la collocazione di questo spazio nell’arcipelago delle altre condizioni. Ma non si può trascurare un cenno alla condizione giovanile nel nostro tempo.
L’istruzione non è più in grado di promettere ai giovani il soddisfacimento pieno dei propri bisogni identitari, che notoriamente hanno come fulcro lo svolgimento di una professione ben definita e riconosciuta. Il bisogno di protagonismo indotto dalla cultura digitale finisce per essere contraddetto da un’incertezza dei destini occupazionali che rende necessaria una lunga permanenza in famiglia, con la frustrazione esistenziale che ne consegue. Tutto ciò non può non retroagire sui meccanismi della motivazione allo studio e quindi della qualità dell’insegnare e dell’apprendere. Un impegno nello studio privo di prospettiva erode alla radice le ragioni di fondo dell’impegno intellettuale.
Si vuol dire che le aule scolastiche non possono non risentire del clima sociale generale, che investe le dinamiche relazionali familiari, sempre più complicate peraltro dal deficit di autorità vissuto dagli adulti. Il rapporto scuola-famiglia è reso sempre più difficile proprio dai caratteri magmatici della condizione giovanile, che talvolta trovano sbocchi nella protesta e nella manifestazione pubblica, talora implodono in forme meno evidenti ma non meno perniciose dal punto di vista della relazione educativa. Il riferimento qui è a quella contestazione strisciante, a quella dissipazione cognitiva, che si annida nella demotivazione, nell’apatia, nella resistenza passiva a cui assistono quotidianamente gli insegnanti fin dalla scuola media. Il telefonino che cerca sempre di trovarsi uno spazio all’interno della lezione è l’esempio più emblematico del disperato tentativo di rimanere “connessi” alla vita pur rimanendo nella gabbia della scuola. É il rapporto tra cultura dei giovani e cultura della scuola che è ormai entrato profondamente in crisi. Ma dalla crisi non si esce occupando le scuole. Non c’è nessuna valenza formativa nella separazione tra chi insegna e chi impara. Soltanto un pentitismo post-sessantottino ed una irresponsabilità educativa può pensare che il disagio giovanile possa trovare vie alternative allo sviluppo culturale che si realizza all’interno degli spazi istituzionali e a contatto con adulti colti. Occorre avere il coraggio e il senso di responsabilità di comprendere culturalmente e politicamente il disagio dei ragazzi, ma non si fa il loro bene incoraggiando soluzioni giacobine che li impoveriscono e marginalizzano ancor più culturalmente.
Occorre invece essere adulti veri che non vanno in cerca di facile consenso, e discutere seriamente con i ragazzi di tutto l’assetto pedagogico tradizionale perché lo iato tra la cultura della scuola e la loro cultura non si riveli incolmabile. E per discutere occorre essere tutti insieme attorno a un tavolo. Solo questo è formativo, e rappresenta il modo in cui l’istruzione si colora di educazione. Occorre intervenire sulle logiche di selezione dei saperi formali (chi decide cosa bisogna studiare), sull’allestimento di ambienti di apprendimento non obsoleti (chi decide i modi di fare lezione), sull’instaurarsi di climi relazionali a forte impronta costruttiva e cooperativa (come ci organizziamo per imparare meglio). Saperi, metodi e relazioni sono gli ingredienti del curricolo, esplicito ed implicito. Tutto questo serve a prendere sul serio il bisogno di competenza espresso dai nostri giovani, che chiede didattiche con esso congruenti. Per questo il tema delle competenze, fortemente enfatizzato dai sistemi formativi di tutta Europa, non può essere recepito come una mera moda didattica, ma come un’occasione fondamentale per tenere sullo stesso terreno le discipline scolastiche ed i bisogni culturali degli studenti. É tutta la comunità scolastica, dirigente, insegnanti, studenti, personale amministrativo, famiglie, che progetta il curricolo per competenze.

Il tema delle competenze chiama in causa l’apprendere significativo e durevole. Apprendere di qualità. Ciò significa fare i conti con tutto ciò che sollecita (sfida) l’immaginario e la motivazione degli studenti attuali, nella convinzione che non vi è apprendimento possibile senza motivazione. Gli studi di psicologia dell’apprendimento legano indissolubilmente cognizione ed emozione, e il tema delle competenze come orizzonte della fatica dello studio ben intercetta questa indissolubilità tra le due dimensioni della persona umana. Appare sensato, infatti, dire che il soggetto in apprendimento ha un bisogno naturale di competenza, intesa come padronanza di sapere esperto e senso di autoefficacia. Questo interpella la qualità dell’insegnare. La scuola ha il compito di perseguire apprendimenti volti a sostenere la motivazione alla competenza che è insita in ogni studente, e solo un curricolo che integra sapientemente scelta dei saperi, allestimento di metodologie e creazione di climi relazionali coinvolgenti sembra in grado di raccogliere la sfida posta alle istituzioni educative dalla società della conoscenza. Nell’orizzonte delle competenze culturali si situa l’idea di istruzione educativa da cui eravamo partiti.

E in questo’orizzonte che andiamo delineando non si situa una valutazione scolastica schiacciata sulle prestazioni e non si situa alcuna testificazione del sapere. Con buona pace dei docimologi, se vogliamo costruire un ambiente scolastico qualitativamente stimolante per i nostri bambini e i nostri ragazzi dobbiamo attribuire preminente valenza formativa e discorsiva – quindi non meramente quantitativa e numerica – a tutto il processo del valutare. Il problema non è quello di piazzare la nostra scuola in buona posizione nelle graduatorie Invalsi. Il problema è costruire successo formativo valorizzando tutti gli aspetti processuali dell’esperienza di apprendimento, che hanno a che fare con l’interesse, la motivazione, la riflessività, la capacità cooperativa. Sono questi i presupposti necessari per i cosiddetti “risultati di apprendimento”, e la valutazione ha un ruolo centrale nel promuovere atteggiamenti positivi verso lo studio. Si tratta di rivisitare i processi del valutare scolastico come processi per l’apprendimento oltre che dell’apprendimento. Anche il terreno della valutazione quindi diventa un campo di ricerca per le comunità professionali.

In altri termini, una volta prese le distanze concettualmente da un modello che non problematizza i saperi e non delinea orizzonti di sensatezza per chi impara, occorre avviare la necessaria ricerca sulle discipline per comprendere quali abiti mentali di esse siano chiamati a “rimanere”, a doversi considerare acquisiti durevolmente anche a fronte del naturale oblìo da cui saranno investite le cosiddette “nozioni”. La posta in gioco sta nella capacità delle scuole di costruire insieme percorsi curricolari nei quali i saperi disciplinari siano individuati e disposti sulla linea del tempo didattico secondo una logica formativa orientata allo sviluppo di competenze culturali. Il sapere nel curricolo, infatti, in quanto sapere situato, sapere per l’apprendimento, sapere per la competenza, si sottrae ad una logica trasmissiva che suppone uno studente meramente ricettivo, chiamato a riprodurre contenuti. Il sapere nel curricolo è atteso alla trasposizione didattica, dispositivo di ricerca che vanta un’importante tradizione di studi, fondato sull’analisi, la decostruzione e ricostruzione formativa dei saperi disciplinari. Esso trae le sue premesse dalla distinzione tra forma scientifica e forma didattica dei saperi che implica il passaggio, dal sapere-contenuto al sapere-conoscenza. Lo sviluppo di competenze culturali nei bambini e nei ragazzi sta proprio in questa transizione, in questo deuteroapprendimento (Bateson) che è il sale del fare scuola e richiede un impegno collegiale significativo e prolungato nel tempo da parte delle comunità professionali. La ricerca sulla dimensione formativa dei saperi richiede modelli organizzativi adeguati, che hanno come focus l’articolazione dei Collegi docenti in dipartimenti con il compito di individuare i nuclei fondanti delle discipline e la loro configurazione formativa, con annesso allestimento di prove di verifica. Ed è qui che le condizioni pedagogiche e didattiche si saldano con le altre condizioni di qualità delineate all’inizio di questo ragionamento.
Quando si ragiona di modelli organizzativi orientati alla costruzione del curricolo per competenze, bisogna fare i conti con vincoli e possibilità. Le possibilità sono date dal Regolamento dell’autonomia e sulle possibili flessibilità organizzative che esso individua perché la scuola sappia intercettare i bisogni formativi di tutti coloro che la frequentano, inclusi i docenti. E perché essa dunque si configuri come ambiente di ricerca, sperimentazione e sviluppo. I vincoli hanno a che fare con l’erosione progressiva dei fondi di istituto, con la mancanza di un organico funzionale, che certamente neutralizzano le potenzialità insite nel Regolamento, con la conseguenza da un lato di mantenere le tradizionali rigidità del lavoro docente, dall’altro di impedire quell’arricchimento dell’offerta formativa che spesso permette di affrontare emergenze quali la dispersione scolastica o i bisogni educativi speciali. A questo occorre aggiungere, in molti casi, la fatiscenza delle condizioni strutturali e logistiche, che non vanno affatto sottovalutate in ordine alla qualità delle condizioni pedagogiche e didattiche, ma neppure evocate come alibi per mantenere prassi organizzative, pedagogiche e didattiche obsolete. Superfluo considerare come tutto questo da un lato risenta e dall’altro si riverberi sulle condizioni ambientali e territoriali, ovvero sul rapporto scuola-famiglia, scuola-enti locali, scuola-terzo settore, e sulla capacità della scuola di essere fattore di animazione culturale, soprattutto in territori in cui la qualità complessiva della convivenza civile richiede alle scuole ampie dosi di istruzione educativa.
Di questo complesso sistema di condizioni, tutte convergenti verso la qualità dell’insegnare e dell’apprendere, la politica scolastica non sembra farsi carico adeguatamente. Anzi, ha pesantemente decurtato negli ultimi anni gli investimenti sull’istruzione pubblica al punto da minare seriamente tutte le variabili che concorrono alla costruzione della qualità pedagogica e didattica delle nostre scuole.
Averne consapevolezza non significa piangersi addosso, ovviamente, e i dirigenti scolastici sanno bene come poter fare le nozze con i fichi secchi, utilizzando al meglio i fichi secchi. Credo importante che un DS da un lato non dimentichi mai di essere stato un insegnante, dall’altro non indulga eccessivamente in questa memoria. Egli resta il primo motore dell’innovazione didattica. La sua leadership educativa non può essere offuscata dalle pur indispensabili incombenze di carattere gestionale e organizzativo. Il gestionale e l’organizzativo in un’istituzione scolastica sono cornici necessarie del pedagogico e del didattico, perché se è vero che ogni ora di apprendimento per i ragazzi non è estranea al contesto organizzativo della scuola, è possibile dire anche che un contesto organizzativo in cui l’organizzare non sia finalizzato all’apprendere finisce per declinare un’efficienza priva di efficacia.
Nella gestione e nell’organizzazione funzionali all’insegnare e all’apprendere, nella scuola dell’autonomia, deve avere un ruolo preminente la formazione in servizio degli insegnanti che va perseguita in ogni modo, anche con le esigue risorse disponibili (questione che tuttavia può essere validamente affrontata attraverso il dispositivo delle reti, art.7 Regolamento). Sulla formazione dei docenti come leva strategica per la qualità dell’insegnare e dell’apprendere non ci possono essere ambiguità. E non si finirà mai di distinguere concettualmente l’idea di formazione dall’idea di aggiornamento, che costituiscono due dimensioni complementari del profilo docente. La formazione in servizio dei docenti di una scuola ha sempre carattere collegiale e sperimentale e non può fare a meno dell’attività d’aula con i ragazzi perché si lega strettamente alla realizzazione del POF, mentre l’aggiornamento riguarda l’arricchimento delle conoscenze che concorrono ad una buona formazione. La formazione in tal senso può rappresentare, come scrive Armando Luisi, “l’occasione di un approvvigionamento occasionale di modelli e teorie che possano essere utile fonte di revisione delle pratiche”. É il paradigma della ricerca-azione che ogni scuola dovrebbe incentivare per promuovere la qualità dell’insegnare e dell’apprendere.
Ma bisogna creare comunità professionali motivate e disposte a mettere in gioco la propria capacità di ricerca. Non è impresa facile in tempi di vacche magre, né bastano pochi slogans ben confezionati e qualche obolo triennale ad incentivare una categoria che da anni è massacrata dalle politiche per l’istruzione e dallo screditamento sociale. Ma non è impresa impossibile, come mostrano alcune esperienze virtuose di direzione. Mi piace molto rievocare quanto scriveva vent’anni fa, a proposito del DS, un esperto di scuola come Piero Romei, che qui cito testualmente a mo’ di conclusione: “Non si tratta solo di operare in termini di ‘fare’, per introdurre le innovazioni. Le innovazioni passano e si consolidano a mano a mano che producono modificazioni nei modi di pensare e di operare; che ai miti tradizionali se ne sostituiscono altri, nuovi o i vecchi rielaborati. […] L’innovazione e il cambiamento richiedono al capo di essere il cantastorie: di svolgere una funzione mitopoietica, di far sì che le vicende, le conquiste che ne hanno segnato l’introduzione, i valori di riferimento di cui sono portatori assumano la dimensione del mito riconosciuto e in cui il gruppo si riconosce.[…] Spetta perciò al capo d’istituto il compito non solo di promuovere e sostenere ma anche di ‘cantare la storia’: di non perdere alcuna occasione per pubblicizzare, celebrare, diffondere, ricordare – con l’enfasi e la retorica necessarie – le caratteristiche e il senso delle iniziative intraprese sul piano della progettualità collegiale, mettendo in risalto le difficoltà affrontate, i risultati raggiunti, i riconoscimenti ottenuti, le prospettive aperte. Di far sentire a coloro che aderiscono e collaborano di essere ‘dalla parte della storia’, di contribuire in positivo a costruirla”.
Questo a mio parere è il modo intellettualmente fine ed emotivamente coinvolgente con cui i DS possono contribuire a costruire una cultura della qualità nelle nostre scuole.

Maurizio Muraglia

Riferimenti fondamentali
• Baldacci M., Curricolo e competenze, Mondadori 2010;
• Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi 1976;
• Boscolo P. La fatica e il piacere di imparare, UTET 2012;
• Boscolo P., Psicologia dell’apprendimento scolastico, UTET 1997;
• Bruner J., La cultura dell’educazione, Feltrinelli 1997;
• Martini B., Formare ai saperi, Francoangeli 2005;
• Morin E., La testa ben fatta, Cortina 1999;
• Muraglia M., “Il progetto educativo” in AA.VV., Profili della dirigenza scolastica, Tecnodid 2012, pp.353-425;
• Muraglia M., Curricolo, Tecnodid 2011;
• Pellerey M., Competenze, Tecnodid 2010;
• Recalcati M., Cosa resta del padre?, Cortina 2011;
• Romei P., Autonomia e progettualità, la Nuova Italia 1995.

Pubblicità

Informazioni su Muraglia

Insegnante, blogger di servizio

Pubblicato il 12 dicembre 2014, in Educazione e scuola con tag , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: