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“Non ragioniam di lor…” e noi ci ragioniamo

I molti modi danteschi di amare

Forse è l’autore in cui la parola è maggiormente presente. L’autore è Dante e la parola è amore. Sembra che per il poeta fiorentino ogni aspetto della vita umana abbia a che fare con l’amore, inteso come una forza propulsiva ancestrale. In un prezioso volumetto dal titolo Amore (Treccani 2021), Emilio Pasquini e Guido Favati offrono una rassegna dettagliatissima delle accezioni del termine. Sono tanti gli attributi che definiscono il tipo di amore che Dante volta a volta chiama in causa, ma quelli che hanno attirato maggiormente la mia attenzione e suscitato il mio desiderio di esplorarne le potenzialità di scandaglio dell’animo umano sono quattro: intellettuale, passionale, sublimato, mistico. Altri attributi potevano essere utilizzati: agapico, redento, cosmico ecc. Poi c’è l’amor che move il sole e l’altre stelle, che forse agli occhi di Dante fonda tutti gli altri “amori”.

Il viaggio alla scoperta delle forme dell’amore dantesco ha trovato una sponda preziosa in un luogo che da anni studia il Medioevo: l’Officina di Studi Medievali, a Palermo in via del Parlamento. In quel luogo, grazie all’affettuosa ed efficace cooperazione di Diego Ciccarelli, Giuseppina Sinagra e tutto lo staff dell’istituto, ogni mese scaviamo in una forma di amore dantesco. Abbiamo esplorato l’amore intellettuale e l’amore passionale. E’ emersa nel primo seminario la profonda indissolubilità tra intelletto e amore in Dante, profondamente persuaso che si può amare solo ciò che si conosce e si può conoscere solo ciò che si ama, in una circolarità nutritiva e contestatrice di ogni dicotomia tra cognizione ed emozione. E’ emersa nel secondo seminario la forza travolgente della passione amorosa – esemplificata nel celebre episodio infernale di Paolo e Francesca – ed il suo potenziale, sempre  agli occhi di Dante, di disumanizzazione. Compare già a questo livello il ruolo decisivo del “fedele consiglio de la ragione”, che il poeta auspica, nel suo libello Vita Nova, pur all’interno dei vortici amorosi.

Ecco, questo è quel che avviene ogni mese presso l’Officina di Studi Medievali di Palermo. In tempi di frenesia efficientistica provo a creare spazi di profondità, incursioni in paradigmi lontani del tempo, degustazioni di poesia e di filosofia. Trovate spazio, vi aspetto!

Giusto e ingiusto: Dante parla ancora

Monreale, Settimana di Studi Danteschi, 25 ottobre 2024

Maurizio Muraglia

O sommo Giove

    Nel sesto canto del Purgatorio Dante si scaglia contro le città italiane. Le città dell’Italia sono in perenne conflitto tra loro, preda di violenze ideologiche che arrivano anche a produrre crudeltà estreme, come si è visto con la vicenda del conte Ugolino (Inf. 33).

    Al centro dell’attenzione dantesca sta il male. Qui osservato nel suo manifestarsi politico, come conflittualità civile e caos istituzionale. La gente si odia (vieni a veder la gente quanto s’ama). Il mondo è sovvertito, ed i valori in cui Dante crede sono calpestati. L’autorità politica latita e, quando non latita, l’autorità ecclesiastica la ostacola nel suo compito di garantire ordine, armonia e benessere. E’ l’autorità politica, secondo l’impostazione del dantesco De Monarchia, quella preposta a garantire la felicità terrena.

    Di fronte all’imperversare dei conflitti politici, lo sguardo di Dante si rivolge al cielo, alla giustizia divina:

    118 E se licito m’è, o sommo Giove
    che fosti in terra per noi crucifisso,
    son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

    Nel Medioevo Giove era diventato un nome comune, e ci si poteva permettere letterariamente di chiamare il Dio cristiano col suo nome. La domanda di Dante è la tipica domanda dell’uomo biblico di fronte al male. E’ anche la domanda dell’ebreo ai tempi dell’Olocausto: Dio, dove sei? Perché guardi altrove? E’ una domanda legittimata dal verso  che coerenza c’è tra la presenza del male del mondo e l’amore che Dio ha per gli uomini, testimoniata dalla sua incarnazione e crocifissione? Se Dio è bene, perché c’è il male? L’uomo che ama la giustizia e vede l’ingiustizia, sentendosi impotente, non può che indignarsi. E’ esperienza di ciascuno.

    E dopo, quasi a sintetizzare in una sola terzina tutta l’invettiva precedente, Dante esclama:

    Ché le città d’Italia tutte piene
    son di tiranni, e un Marcel diventa
    ogne villan che parteggiando viene.

    Le città d’Italia sono tutte piene di figure dal potere illegittimo. Tiranni. Capi di fazione giunti alla signoria delle città. Anche Marcello era un capo fazione che ambiva al potere nell’antica Roma contro Cesare, e a diventare capo fazione per Dante può essere un qualsiasi campagnolo. Il potere di questi tiranni è sentito come illegittimo in virtù di una tavola di valori superiore, che fa perno sull’amore. Il grande assente dalla scena politica del tempo di Dante.

    Giustizia e Ingiustizia

    Antigone e Dante guardano al mondo e ai poteri del mondo con la coscienza dell’Ingiustizia. Entrambi subiscono l’ingiustizia delle leggi umane. Antigone si ribella e si fa giustizia da sé seppellendo il fratello Polinice. E pagando il prezzo di questa ribellione. Anche Dante paga un prezzo salato per l’ingiustizia politica. Il suo esilio è il frutto di questa ingiustizia.

    Entrambi hanno coscienza di una Giustizia superiore a quella degli uomini. In nome di questa, Antigone si ribella e fa di testa sua. E pagherà. Dante è in un’altra situazione. Non può fare niente da sé per riparare l’ingiustizia subita. Quella da lui subita è un’ingiustizia, si può dire, di sistema. Il sistema politico è malato. Dante non può aggiustarlo. Per questo si rivolge a Dio e invoca da lui la Giustizia.

    Antigone agisce, Dante interroga: non vedi cosa sta succedendo? Perché sei distratto? L’invocazione è fatta da chi non capisce. Anzi, capisce o crede di capire come Dio vuole che vada il mondo. Ma vede che va tutto al contrario.

    Di fronte al non capire Dante si pone però con umiltà. Come Antigone, anche Dante è certo di avere Dio dalla sua parte. Perché Dio è amore, e in giro c’è odio. Dante non vuole rinunciare alla bontà di Dio e allora ipotizza che sia lui a non vedere l’intenzione di Dio. Se Dio è buono, il male è provvisorio. Nel mistero della volontà di Dio si sta preparando qualcosa di buono, del tutto incomprensibile alla nostra intelligenza.

    121 O è preparazion che ne l’abisso
    del tuo consiglio fai per alcun bene
    in tutto de l’accorger nostro scisso?

    Ora, viene da chiedersi: al posto di Antigone, di fronte alla legge di Creonte, pur sapendo che il Dio cristiano sarebbe stato dalla sua parte, Dante avrebbe seppellito il fratello in nome della legge di Dio? Avrebbe trasgredito? Non è dato saperlo.

    Obbedire o ribellarsi?

    In qualunque luogo vi sia un’autorità, chi è sottoposto si aspetta giustizia da essa. Dunque il tema è posto. E se questa giustizia non c’è, che si fa? obbedire o ribellarsi? O c’è una terza possibilità?

    Antigone si è ribellata e ha pagato. Socrate non si è ribellato e ha pagato lo stesso. Dante cosa fa? Risponde all’ingiustizia con la penna. Non si sottomette alle condizioni che gli pongono per rientrare, e ne ricava una condanna a morte in contunacia. Dante giudica. Esprime con chiarezza la propria indignazione. L’andazzo politico per lui è assolutamente censurabile. I giudizi sono sferzanti. Chi dovrebbe fare il suo dovere non lo fa. Denuncia. Non è ignavo. Interpella Dio, in due passaggi. Il primo è una vera e propria critica: dove guardi? Il secondo smorza la critica e ammette la possibilità che Dio abbia sguardo più lungo. Equidistante da due atteggiamenti: l’arroganza di chi vuole capire tutto e la rassegnazione di chi accetta tutto senza prendere posizione.

    Dante prende posizione, denuncia, si indigna e scrive. Assume una postura chiara. Si può non condividere questa sua ossessione per l’autorità imperiale, la si può anzi la si deve, perché così la storia ha sentenziato, considerare implausibile, ma non lo si può accusare di ambiguità. Ogni uomo non è obbligato a capire perfettamente il tempo in cui vive. Può sbagliarsi. Ma ha il dovere, comunque, di interrogarsi e di combattere per una società migliore. Infatti Dante fa proprio questo e non c’è in lui rassegnazione o fatalismo. C’è l’interpellanza posta direttamente a Dio, quindi c’è la rinuncia alla propria onnipotenza. Egli si manifesta povero di potere e di sapere, e per questo non dà una risposta ma rivolge una domanda senza arroganza: guardi altrove o sono io che non capisco?

    Questa postura – senza arroganza e senza rassegnazione – è interessante. Ci coinvolge. A qualsiasi età. Al male non ci si rassegna. Si denuncia con coraggio rivolgendosi a chi ha autorità. Lo ha fatto anche Antigone, ma Creonte non ha sentito ragioni ed Antigone ha agito, bypassando la legalità di Creonte in nome di un senso di Giustizia superiore. In Dante però troviamo anche il riconoscimento della possibilità di una visione più ampia, che consente provvisoriamente di perdere qualche battaglia pur di vincere una guerra. Insomma, per Dante sembra che l’ultima parola sia della legge divina. Lo fa per impotenza o per convinzione?  

    Il nostro tempo, a scuola

    Alle volte in famiglia o a scuola chi ha autorità appare ingiusto e non si capisce perché: sta guardando più lontano e magari chi non ha autorità non percepisce lo stesso orizzonte. Ma la domanda va fatta, perché ogni studente ha il diritto di non capire e non ha il dovere di obbedire senza capire. E chi a scuola ha l’autorità, a differenza di Dio, ha il dovere di spiegare la ragione di quello che allo studente appare male. Di spiegargli che il male è apparente, perché è in gioco qualcosa di buono. E deve spiegare cos’è questo qualcosa di buono. Deve negoziare, argomentare. D’altra parte anche l’arroganza è controindicata, perché va sempre ammessa la possibilità di aver uno sguardo corto rispetto a quello che sta facendo chi è al di sopra di noi.

    Insomma, la domanda ineludibile di chi non ha potere verso chi ce l’ha è questa: perché fai succedere questo? Sei distratto oppure sei attento ma guardi più lungo?

    Ecco, Dante di fronte all’ingiustizia non è un rassegnato. E nemmeno un ribelle, un eversivo, un terrorista. Dante si indigna e non si trattiene dal dire e dal domandare, non fa sconti, incalza i poteri, anche rischiando la pelle, ma riconosce la propria limitatezza di sguardo, riconosce la possibilità di non vederci chiaro. Per questo domanda, chiede spiegazioni. Non è passivo, ma è attivo di fronte all’ingiustizia. In questo “riconoscimento attivo” sta proprio la sua grandezza. E forse anche la nostra, quando ci troviamo nella stessa condizione.

    Un libro che inizia il suo cammino

    Alla Casa dell’Equità e della Bellezza di Palermo oggi è avvenuta la prima presentazione del libro che accosta la Commedia attraverso cento parole-ponte tra passato e presente. Tanto affetto, tanta attenzione, tanta poesia, tanta arte e tanta musica. Gratitudine ad Adriana Saieva ed Augusto Cavadi per la loro ospitalità. Come exemplum di lettura del libro abbiamo presentato una sequenza di tre parole tratte dai primi canti delle tre cantiche: PAURA – LIBERTA’ – ORDINE. Ne è risultato un itinerario esistenziale, che dalla paura del buio interiore, attraverso la liberazione progressiva dagli impulsi inconsci verso la disunione interiore, approda all’ordine quale partecipazione dell’anima umana all’armonia cosmica. E’ il nostro modo di far parlare Dante: rigore filologico al servizio della crescita umana. Un bel pomeriggio di spiritualità laica.

    L’eterno Ugolino

    Nel Dantedì del 2024, il Palazzo del Poeta di Palermo, sede prestigiosa di eventi culturali, ha ospitato l’evento progettato da Laura Mollica, chi qui scrive e Marco Pavone, che hanno riproposto il trentatreesimo canto dell’Inferno, il canto della tragedia del Conte Ugolino. La vicenda del nobile pisano, incarcerato a tradimento e fatto morire di fame con due figli e due nipoti, ha dato spunto per riflettere sull’odio politico capace della più feroce disumanità. Chi qui scrive ha introdotto offrendo ai presenti la cornice storica e letteraria in cui si inserisce il testo dantesco con l’ausilio di immagini tratte dall’iconografia dantesca, predisposte da Laura Mollica. A seguire Mollica ha presentato una significativa rassegna dei contributi offerti dall’arte, nel tempo, alla vicenda di Ugolino, collocato da Dante nel nono cerchio tra i traditori della patria insieme all’arcivescovo Ruggieri suo carnefice, di cui divora eternamente il cranio. Laura Mollica ha poi eseguito alla fisarmonica un’aria di Bach preparando la transizione alla parte più strettamente poetica, curata da Marco Pavone, che prima ha fornito preziose suggestioni di prosodia dantesca e poi ha splendidamente declamato il canto con un suggestivo sottofondo di Gorecki, ripreso, a conclusione, dalla deliziosa fisarmonica di Laura Mollica. Un approccio multimodale che ha permesso ai presenti di rivivere la vicenda narrata da Dante e di riflettere su quanto attuale possa risultare un brano che mette eternamente in scena la crudeltà umana prodotta da ideologie che mascherano istinti brutali di vendetta. L’evento è stato reso possibile dalla impeccabile organizzazione di Rosa Di Stefano. Qui di seguito alcune foto realizzate da Stella Verde.

    Mi curo con Dante

    Tra tanti libri che riguardano Dante e che doverosamente si leggono, ogni tanto ne esce qualcuno che occorre leggere più di una volta, tanta è la profondità che trasuda dalle sue pagine. E’ il caso di questo “E d’ogni male mi guarisce un bel verso”, scritto da Fabio Stassi, pubblicato in questi giorni dalla palermitana editrice Sellerio e puntualmente segnalatomi dalla mia cooperatrice culturale Laura Mollica, fonte inesauribile di spunti, segnalazioni e stimoli interdisciplinari.

    Davvero Stassi fa respirare, perché esce dal “mondo umbratile dei dantisti” (Contini) ed entra in quello spazio in cui tanti di noi, grandi e piccoli (come me) appassionati di Dante, desideriamo entrare, che è quello della meditazione esistenziale suscitata dai versi danteschi. L’ipotesi è quella del valore curativo della poesia dantesca, a partire proprio dal primo paziente da curare che è Dante stesso, rivisitato da Stassi e dai suoi riferimenti culturali nella sua strutturale fragilità psicologica ed esistenziale, riscattata dalla potenza pittorica (e musicale) dei suoi versi. Nella prosa di Stassi, Dante è in conversazione con scrittori che, avendolo studiato ed amato (Leopardi, Mandel’stam, Borges, Eliot, Pirandello, Ungaretti, Saba, Canetti, Caproni per citarne alcuni), riescono a offrirci chiavi di lettura a volte fulminanti e capaci di suscitare anche nei non addetti ai lavori il desiderio di saperne di più. Il culmine della forza di resistenza al dolore generata dal poeta fiorentino sta nella rievocazione fattane da Primo Levi nel celebre episodio di Pikolo, in Se questo è un uomo. Da qui merita trarre un exemplum: “Non c’è stata forse, nel nostro tempo, un’approssimazione all’inferno più universale di quella di Auschwitz, nessun allontanamento o esilio più riconosciuto dalla condizione umana. Quale eco avranno avuto, per Primo e per Pikolo, quei due versi, ‘fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza’? Perché è proprio nei luoghi più estremi, nei luoghi di pena e di detenzione, negli ospedali, nelle carceri, nei lager, che la poesia mostra tutto il suo sorprendente potere salvifico. Nei penitenziari dotati di una biblioteca, la percentuale dei suicidi cala drasticamente: un verso, anche un singolo verso, può salvare una vita, restituire l’umanità che si è smarrita o ci è stata tolta”. (pp.86-87)

    Insomma, un libro come questo è davvero quel che serve ad uscire dal recinto talvolta asfittico degli specialisti. Ne consiglio la lettura non solo ai dantisti confinati nell’elitaria erudizione dantesca, ma a tutti coloro che hanno amato e amano Dante, inclusi ovviamente gli insegnanti, e non solo di Lettere, che hanno a cuore la poesia. “La scomparsa della poesia è un altro dei grandi cambiamenti climatici della nostra epoca, e come tutti i mutamenti in corso non è stato ancora indagato a fondo. Ma è alla base di tanti malanni, d’ogni genere, perché la poesia ha a che fare con la bellezza e con il piacere: del linguaggio, della parola, dell’amicizia. Per usare un termine dantesco, con i piaceri del convivio, dello stare bene insieme, nel modo corretto, e dunque con il ben essere, con la salute nel senso letterale di salvezza, con la Beatitudine. Dante ne era consapevole e lo scrive in un’altra lettera a Cangrande della Scala: il fine di tutta la Commedia ‘ consiste nell’allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità’. (pp.103-104)

    Dante, la scienza e l’immanenza

    Matto è chi spera che nostra ragione
    possa trascorrer la infinita via
    che tiene una sustanza in tre persone.

    State contenti, umana gente, al quia;
    ché, se potuto aveste veder tutto,
    mestier non era parturir Maria;

    e disïar vedeste sanza frutto
    tai che sarebbe lor disio quetato,
    ch’etternalmente è dato lor per lutto

    (Purg. III, 34-42)

    La scienza di Dante comprende le sole cose che vediamo e tocchiamo, insomma l’arredo materiale del mondo. Nessun sospetto riguardo alle cose dentro alle cose, l’immensamente piccolo, o alle cose sopra le cose, l’immensamente grande. E poiché il poeta rappresenta una gigantesca cassa di risonanza delle conoscenze del suo tempo, e dei tempi che lo hanno preceduto, dobbiamo credere che nessuno sia stato sfiorato allora dall’idea di un mondo dentro le cose o sopra le cose. La Terra è una sfera per metà coperta dalle acque e per l’altra metà costituita di terre emerse sotto un cielo stellato fisso e immobile, e dobbiamo immaginare che questo fosse sufficiente a soddisfare le menti degli uomini e delle donne del tempo. Cosa è successo, dunque, che ci ha fatto sollevare gli occhi verso il firmamento e affondare lo sguardo nelle viscere delle cose stesse? Quale terremoto ci ha affrancato dall’ignoranza più fitta e dall’ancor più pericolosa presunzione di sapere? Non certo l’approfondimento dei misteri teologici e della loro complicatissima veste dottrinaria, ma proprio l’inquietudine tutta umana che non ci fa “stare contenti” al quia: una capacità di vedere le stesse cose di sempre come trasparenti e trasfigurate, e di imbarcarsi in una serie nutrita di “folli voli” (Inf. XXVI, 112-126): una terrena ribellione al già deciso e destinato; una natura che oltre alla pura e semplice ferinità ci permetta la messa in prospettiva, la comparazione e l’astrazione, il misurare e il far di conto, senza farci perdere l’inclinazione a leggere Dante e ad ammirare Brunelleschi. Proprio in considerazione della sublimità della Commedia possiamo soffermarci per un attimo a considerare quale immane cammino abbiamo percorso e quale rivoluzione abbia stravolto dalle fondamenta la nostra umile immanenza. Senza alcun bisogno di trascendenza.

    Dante per gli studenti dei “Classici in strada”

    Maurizio Muraglia, Laura Mollica e Anna Cannizzo

    Lo scorso 9 marzo, nell’aula magna del Liceo “De Cosmi” di Palermo, nell’ambito dell’iniziativa “Classici in strada” che coinvolge una rete di scuole, ho incontrato gli studenti di quella scuola in presenza, ma anche gli studenti della rete in remoto, per affrontare il tema dei fiumi nella Divina Commedia col prezioso supporto iconografico della collega Laura Mollica, moderatrice dell’evento e coautrice con me del testo “Dante parla ancora?” edito nel 2021 da Di Girolamo. Riassumo qui il contributo offerto alle ragazze e ai ragazzi di quella scuola.

    All’interno della Commedia è presente tanta geografia fisica, ovviamente per quel che riguarda l’Inferno e il Purgatorio. Si tratta di una geografia dell’anima, per la quale i singoli elementi si configurano in relazione a dimensioni esistenziali che il poeta vuole via via mettere in luce. Il fiume rimanda certamente al dinamismo della vita umana, con il suo scorrere placido o strozzato, col suo straripare o inaridirsi o ancora ghiacciarsi.

    Quattro sono i fiumi infernali: Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito.

    L’Acheronte è il fiume che evoca la transizione da una condizione ad un’altra. Per Dante, che non è ancora morto, si tratta del passaggio dalla vita ordinaria all’inferno propriamente detto, che è inferno dell’animo, scavo tra le proprie fragilità, contraddizioni, criticità. Passaggio difficile, che richiede volontà e coraggio, ma che Dante effettua in modo inconscio, perché egli non salirà mai sulla barca di Caronte con le altre anime, ma si ritroverà “guadato” inconsapevolmente. Infatti il testo evoca un vero e proprio terremoto che determina lo svenimento del viaggiatore ed il suo ritrovarsi sull’altra riva del fiume senza accorgersene.

    Lo Stige è vera e propria palude fangosa, che vede iracondi e accidiosi immersi in una pozza lurida. I primi si dilaniano vicendevolmente, mentre i secondi risultano sommersi dal fango e riescono appena a farfugliare qualcosa facendo gorgogliare la palude. Sono vite che ristagnano in modo putrido, vite avvelenate dall’ira esplosa e dall’ira implosa. Sono vite degradate, che non riescono più a “scorrere” e restano impaludate in un’acredine eterna, senza respiro. Vite paralizzate.

    Il Flegetonte è il fiume che scorre ribollendo di sangue, metafora dell’animalità cui si riducono i violenti. Violenti contro il prossimo, contro se stessi e contro Dio. Il Flegetonte, col suo sangue, avvolge tutte le violenze di cui è capace l’uomo.

    La vita che non scorre più perché è cristalizzata nel ghiaccio è rappresentata dal Cocito, il fiume-lago di ghiaccio in cui sono sommersi i traditori. Per Dante tradire è come cessare di vivere, immobilizzare l’anima in uno stato di gelo permanente, reso tale peraltro dal continuo battito d’ali dell’enorme Lucifero conficcato al centro della terra.

    Il Purgatorio ha due fiumi, entrambi provenienti da una sorgente divina: il Lete e l’Eunoé. Dante si immerge in essi nel Paradiso terrestre perché la sua purificazione e disposizione a salire alle stelle avvenga con un doppio passaggio, l’oblio dei propri peccati, col superamento del senso di colpa, e la memoria del bene compiuto. Dante ha attraversato gli inferni della propria anima imbattendosi nei fiumi infernali, che, al contrario di quelli purgatoriali, erano tutti originati dalle lacrime del Veglio di Creta, come spiega il maestro Virgilio.

    I fiumi del Purgatorio sono necessari per restituire a Dante la piena umanità, tant’è vero che dopo l’immersione, quasi battesimale, nel Lete, Dante è consegnato a quattro fanciulle danzanti che rappresentano le quattro virtù cardinali, ovvero il requisito della piena umanità.

    Dalla metafora del fiume non è esente neppure il Paradiso, che verso la sua conclusione pone davanti ai lettori la fiumana di luce che approda alla candida rosa, luogo della festa di tutti i beati.

    Dai fiumi di fango o sangue al fiume di luce, il rapporto di Dante con i fiumi si configura quale rapporto con le varie sfaccettature della vita umana. L’Acheronte rappresentava il doloroso transito verso l’abisso del proprio dolore, mentre il fiume paradisiaco rappresenterà la capacità di Dante di sapere contemplare la bellezza.