Archivi categoria: Esperienze
Indelebile Nuccio Pulvirenti

Li chiamavano Ispettori, oggi sono Dirigenti Tecnici. Se n’è andato uno di questi, l’Ispettore Sebastiano Pulvirenti chiamato affettuosamente “Nuccio”, una di quelle figure che non si possono cancellare. Ho avuto l’onore di lavorare a stretto gomito suo per alcuni anni, senza essere, come si dice, “comandato” nelle stanze del potere scolastico locale. Ero un insegnante in servizio e basta. Portavo avanti il CIDI di Palermo. Quegli anni erano anni in cui le scuole siciliane avevano la sensazione di essere assistite. Erano gli anni immediatamente seguenti all’arrivo dell’autonomia, in cui credeva fortemente, e spesso ci si ritrovava insieme allo stesso tavolo a lavorare con i docenti. E con noi anche Giancarlo Cerini, suo caro amico. Devo a Nuccio Pulvirenti se oggi – per contrasto – ho imparato cos’è la tecnocrazia nella scuola, quel sapere per iniziati fatto di acronimi feroci (RAV, PDM, OSA, UDA, PTOF, PEI, BES……) col quale si fanno le conferenze di servizio ed i collegi nelle scuole in cui non si capisce niente e quelli che ci capiscono sono….lo staff. Con Nuccio le leggi e gli adempimenti erano avvolti da cultura, finezza intellettuale, linguaggio cordiale. Era il Cerini siculo. Le sue slides erano belle. Ci teneva lui alla bellezza con cui presentare anche contenuti aridi. Amava la letteratura e non concludeva mai un intervento senza una citazione. Mi disse una volta che avrei dovuto imparare a farle le slides, perché mi vedeva usare ancora la lavagna luminosa. Ha insegnato a generazioni di docenti e dirigenti la valutazione come compagna di strada per fare le cose meglio. La rete FARO ne è stata testimonianza. Ho un ricordo personale dolce, di persona mite, elegante, sempre tesa a sdrammatizzare, mai a giudicare, mai a darsi arie da uomo di potere. Lo rimpiange la scuola siciliana perché come lui, senza offesa per nessuno, non se ne sono visti più. E sempre meno, con l’aria che tira, se ne vedranno.
30 anni senza Claudio

Esattamente 30 anni fa, nel lontano 1995, se ne andava precocemente e tragicamente a 33 anni Claudio Gerbino, studioso grecista che tanti, provenienti soprattutto dalla Facoltà di Lettere di Palermo, ricorderanno, ma soprattutto amico fraterno e compagno di vita e di esperienze indimenticabili. Nella sua breve esistenza ha lasciato un segno indelebile di umanità autentica, fuori dagli schemi, capace di segnare le esistenze altrui con la profondità del suo pensare e del suo sentire. Libero da ideologie e da atteggiamenti compromissori, ha dato esempio di radicalità senza sconti e di continuo meditare sul senso della vita. Abbiamo condiviso la passione per la classicità, perché le nostre vite si sono incrociate al tempo degli studi universitari, nel lontano 1981, ma abbiamo condiviso anche gli anni in cui cominciavamo a progettare la nostra vita, solo che egli ha voluto abbandonarla quando ancora non si erano ben definite le sue situazioni professionali. Claudio ha sperimentato profondamente in sé il male di vivere che studiavamo in quegli anni con Leopardi, Montale, Pavese, ha conosciuto l’amore e lo ha vissuto tormentosamente, e in tutto questo ha segnato la mia esistenza con un magistero permanente che vorrei riassumere in un’unica frase: tieniti lontano dalla banalità. Ho ancora negli occhi il suo fastidio e la sua irritazione per la sciatteria, le cadute di stile, la superficialità che negli anni Novanta ancora si tenevano al di qua di quel che oggi si vede dappertutto.
I molti modi danteschi di amare

Forse è l’autore in cui la parola è maggiormente presente. L’autore è Dante e la parola è amore. Sembra che per il poeta fiorentino ogni aspetto della vita umana abbia a che fare con l’amore, inteso come una forza propulsiva ancestrale. In un prezioso volumetto dal titolo Amore (Treccani 2021), Emilio Pasquini e Guido Favati offrono una rassegna dettagliatissima delle accezioni del termine. Sono tanti gli attributi che definiscono il tipo di amore che Dante volta a volta chiama in causa, ma quelli che hanno attirato maggiormente la mia attenzione e suscitato il mio desiderio di esplorarne le potenzialità di scandaglio dell’animo umano sono quattro: intellettuale, passionale, sublimato, mistico. Altri attributi potevano essere utilizzati: agapico, redento, cosmico ecc. Poi c’è l’amor che move il sole e l’altre stelle, che forse agli occhi di Dante fonda tutti gli altri “amori”.

Il viaggio alla scoperta delle forme dell’amore dantesco ha trovato una sponda preziosa in un luogo che da anni studia il Medioevo: l’Officina di Studi Medievali, a Palermo in via del Parlamento. In quel luogo, grazie all’affettuosa ed efficace cooperazione di Diego Ciccarelli, Giuseppina Sinagra e tutto lo staff dell’istituto, ogni mese scaviamo in una forma di amore dantesco. Abbiamo esplorato l’amore intellettuale e l’amore passionale. E’ emersa nel primo seminario la profonda indissolubilità tra intelletto e amore in Dante, profondamente persuaso che si può amare solo ciò che si conosce e si può conoscere solo ciò che si ama, in una circolarità nutritiva e contestatrice di ogni dicotomia tra cognizione ed emozione. E’ emersa nel secondo seminario la forza travolgente della passione amorosa – esemplificata nel celebre episodio infernale di Paolo e Francesca – ed il suo potenziale, sempre agli occhi di Dante, di disumanizzazione. Compare già a questo livello il ruolo decisivo del “fedele consiglio de la ragione”, che il poeta auspica, nel suo libello Vita Nova, pur all’interno dei vortici amorosi.

Ma vogliamo continuare. Il 12 marzo prossimo metterò a fuoco una dinamica che la psicologia ben conosce, quella della sublimazione. Dante giunge all’amore sublimato, compiendo un percorso che può avere una certa capacità di interpellare anche il nostro tempo. Il 9 aprile toccherà all’amore mistico, che Dante ha visto pienamente attuato nell’esperienza di Francesco d’Assisi, mentre il 21 maggio il viaggio si concluderà con l’amor che move il sole e l’altre stelle, cioè con l’amore che il mondo – e nel mondo donne e uomini – riceve da qualcosa o qualcuno che lo trascende. C’è un’armonia d’amore nel mondo? Un’armonia essenziale e pertanto invisibile agli occhi?
Ecco, questo è quel che avviene ogni mese presso l’Officina di Studi Medievali di Palermo. In tempi di frenesia efficientistica provo a creare spazi di profondità, incursioni in paradigmi lontani del tempo, degustazioni di poesia e di filosofia. Trovate spazio, vi aspetto!
Un libro che inizia il suo cammino

Alla Casa dell’Equità e della Bellezza di Palermo oggi è avvenuta la prima presentazione del libro che accosta la Commedia attraverso cento parole-ponte tra passato e presente. Tanto affetto, tanta attenzione, tanta poesia, tanta arte e tanta musica. Gratitudine ad Adriana Saieva ed Augusto Cavadi per la loro ospitalità. Come exemplum di lettura del libro abbiamo presentato una sequenza di tre parole tratte dai primi canti delle tre cantiche: PAURA – LIBERTA’ – ORDINE. Ne è risultato un itinerario esistenziale, che dalla paura del buio interiore, attraverso la liberazione progressiva dagli impulsi inconsci verso la disunione interiore, approda all’ordine quale partecipazione dell’anima umana all’armonia cosmica. E’ il nostro modo di far parlare Dante: rigore filologico al servizio della crescita umana. Un bel pomeriggio di spiritualità laica.















Che leggo quest’estate?




Spesso mi viene chiesto “Cosa hai letto?”, “Cosa stai leggendo”? Provo a dare quattro suggerimenti estivi, di cui tre per chiunque mediamente istruito ed un quarto anche per chi si interessa o opera a scuola ma non da impiegato.
In breve sintesi il perché.
Il romanzo di Daniela Gambino “Due fuori luogo” mette in scena fragilità, disadattamento, tossicità all’interno di una cornice narrativa in cui il tema sentimentale deve fare i conti con l’analfabetismo emotivo. La storia di due siciliani trapiantati al Nord col Sud nella testa e nel cuore che si sforzano di imparare ad amarsi.
Il saggio di Tomaso Montanari “Se amore guarda” è una boccata d’ossigeno su quel che vuol dire vivere con emozione la bellezza del patrimonio culturale. Considero questo libro un miracolo di bellezza e di entusiasmo estetico e civile. Montanari qua dà davvero il meglio di sé e fa venir voglia di amare e toccare tutto quel che ci precede.
Il racconto di Eric-Emmanuel Schmit “Il figlio di Noè” è un capolavoro di intensità narrativa dentro la tragedia della Shoà. L’autore, ex bambino ebreo salvato da un prete cattolico, non offre soltanto storia, ma sapienza umana a trecentosessanta gradi. Si legge d’un fiato.
Infine il saggio “La scuola al bivio” di Massimo Baldacci per chi non vuole rassegnarsi alla scuola della produttività della rendicontazione delle classifiche e dell’apparato neoliberistico. Anche questa una boccata d’ossigeno ed un’obiezione intellettuale decisiva per tutti coloro che non ci aggiriamo dentro le scuole solo per eseguire la circolare ministeriale ma per tenere vivo il pensiero critico.
In tutti e quattro c’è sentimento. Chi scrive palpita. In tempi di passioni tristissime, non è cattiva notizia.
Montanari è competente ma detesta la competenza…

A Palermo ieri tanti di noi, grazie ai fratelli editori Palumbo, hanno avuto il privilegio di ascoltare Tomaso Montanari e Pietro Cataldi su un tema di grande fascino, l’educazione sentimentale e la vita interiore tra arte e letteratura. Davvero si è trattato di un evento capace di suscitare tante riflessioni, soprattutto tra chi ha compiti educativi e di insegnamento a scuola, e tanti ce n’erano a Palazzo Steri. Montanari e Cataldi magnifici. Profondi. Coinvolgenti.
Montanari è un grande esperto d’arte. E Cataldi di letteratura. Nessuno avrebbe avuto dubbi in sala a definire entrambi due persone competenti. Senza virgolette. Competenti. Ciascuno di loro parlava di ciò che conosceva e padroneggiava. Di più: ne parlava in modo coinvolgente. Questo è avvenuto perché hanno costruito nel tempo una competenza almeno ternaria: disciplinare, culturale, comunicativa.
Ma Montanari non se n’è accorto. Appena ne ha avuto la possibilità ha cominciato a rifriggere la solita frittata delle competenze al servizio del capitale umano, delle competenze nemiche delle conoscenze, delle competenze misurabili e di tutto quel repertorio di luoghi comuni già somministratoci nel tempo da coloro che si indignerebbero certamente se qualche pedagogista o qualche insegnante si mettesse a discettare di psicanalisi o di filosofia. Eppure la filiera dei Morelli, dei Recalcati e dei Galimberti adesso annovera anche il professor Montanari. Finita la spiritualità, l’arte e la cultura, è iniziata la paccottiglia dell’accademia che discetta di apprendimento scolastico davanti a docenti osannanti. Un assist involontario ovviamente a coloro, tra i presenti, che sono orientati alla cultura disinteressata e “contemplativa” (che nelle classi scolastiche vuol dire astratta e pedante). Cioè proprio coloro a cui i due relatori non erano interessati a rivolgersi. Eterogenesi dei fini.
Giustamente Montanari lamenta l’attitudine a confinare gli esperti che trattano di politica e cittadinanza nel chiuso delle proprie discipline. Ma l’esperto che esonda deve anch’egli avere una sua deontologia intellettuale. Se no finisce a dilettantismo. Dunque, piuttosto che chiedere a chi ne sa più di lui – come farebbe chi ne sa meno di lui di storia dell’arte – quale accezione assume il concetto di competenza in ambito pedagogico e culturale – e magari anche tentare una via per cambiare nomen ad una res che però lui possiede e tutti ci auguriamo che gli alunni possiedano – egli invita i docenti addirittura all’obiezione di coscienza. Che ci vorrebbe davvero, ma non verso le competenze, bensì verso la burocrazia inutile, la medicalizzazione del disagio scolastico, la messinscena dell’ educazione civica a 33 ore e dei tutor orientativi a 30 ore. Per fortuna, quando egli era studente, i suoi docenti non fecero obiezione di coscienza sulle competenze. E costruirono la sua, di competenza. Che mi porterà in libreria a comprare il suo ultimo libro sull’arte.
Dante per gli studenti dei “Classici in strada”


Lo scorso 9 marzo, nell’aula magna del Liceo “De Cosmi” di Palermo, nell’ambito dell’iniziativa “Classici in strada” che coinvolge una rete di scuole, ho incontrato gli studenti di quella scuola in presenza, ma anche gli studenti della rete in remoto, per affrontare il tema dei fiumi nella Divina Commedia col prezioso supporto iconografico della collega Laura Mollica, moderatrice dell’evento e coautrice con me del testo “Dante parla ancora?” edito nel 2021 da Di Girolamo. Riassumo qui il contributo offerto alle ragazze e ai ragazzi di quella scuola.
All’interno della Commedia è presente tanta geografia fisica, ovviamente per quel che riguarda l’Inferno e il Purgatorio. Si tratta di una geografia dell’anima, per la quale i singoli elementi si configurano in relazione a dimensioni esistenziali che il poeta vuole via via mettere in luce. Il fiume rimanda certamente al dinamismo della vita umana, con il suo scorrere placido o strozzato, col suo straripare o inaridirsi o ancora ghiacciarsi.
Quattro sono i fiumi infernali: Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito.
L’Acheronte è il fiume che evoca la transizione da una condizione ad un’altra. Per Dante, che non è ancora morto, si tratta del passaggio dalla vita ordinaria all’inferno propriamente detto, che è inferno dell’animo, scavo tra le proprie fragilità, contraddizioni, criticità. Passaggio difficile, che richiede volontà e coraggio, ma che Dante effettua in modo inconscio, perché egli non salirà mai sulla barca di Caronte con le altre anime, ma si ritroverà “guadato” inconsapevolmente. Infatti il testo evoca un vero e proprio terremoto che determina lo svenimento del viaggiatore ed il suo ritrovarsi sull’altra riva del fiume senza accorgersene.




Lo Stige è vera e propria palude fangosa, che vede iracondi e accidiosi immersi in una pozza lurida. I primi si dilaniano vicendevolmente, mentre i secondi risultano sommersi dal fango e riescono appena a farfugliare qualcosa facendo gorgogliare la palude. Sono vite che ristagnano in modo putrido, vite avvelenate dall’ira esplosa e dall’ira implosa. Sono vite degradate, che non riescono più a “scorrere” e restano impaludate in un’acredine eterna, senza respiro. Vite paralizzate.



Il Flegetonte è il fiume che scorre ribollendo di sangue, metafora dell’animalità cui si riducono i violenti. Violenti contro il prossimo, contro se stessi e contro Dio. Il Flegetonte, col suo sangue, avvolge tutte le violenze di cui è capace l’uomo.



La vita che non scorre più perché è cristalizzata nel ghiaccio è rappresentata dal Cocito, il fiume-lago di ghiaccio in cui sono sommersi i traditori. Per Dante tradire è come cessare di vivere, immobilizzare l’anima in uno stato di gelo permanente, reso tale peraltro dal continuo battito d’ali dell’enorme Lucifero conficcato al centro della terra.



Il Purgatorio ha due fiumi, entrambi provenienti da una sorgente divina: il Lete e l’Eunoé. Dante si immerge in essi nel Paradiso terrestre perché la sua purificazione e disposizione a salire alle stelle avvenga con un doppio passaggio, l’oblio dei propri peccati, col superamento del senso di colpa, e la memoria del bene compiuto. Dante ha attraversato gli inferni della propria anima imbattendosi nei fiumi infernali, che, al contrario di quelli purgatoriali, erano tutti originati dalle lacrime del Veglio di Creta, come spiega il maestro Virgilio.
I fiumi del Purgatorio sono necessari per restituire a Dante la piena umanità, tant’è vero che dopo l’immersione, quasi battesimale, nel Lete, Dante è consegnato a quattro fanciulle danzanti che rappresentano le quattro virtù cardinali, ovvero il requisito della piena umanità.




Dalla metafora del fiume non è esente neppure il Paradiso, che verso la sua conclusione pone davanti ai lettori la fiumana di luce che approda alla candida rosa, luogo della festa di tutti i beati.
Dai fiumi di fango o sangue al fiume di luce, il rapporto di Dante con i fiumi si configura quale rapporto con le varie sfaccettature della vita umana. L’Acheronte rappresentava il doloroso transito verso l’abisso del proprio dolore, mentre il fiume paradisiaco rappresenterà la capacità di Dante di sapere contemplare la bellezza.
