Lo studente di Canicattì alla prova dei test Invalsi
La Repubblica ed. Palermo, 27.03.2013
Maurizio Muraglia
Un tempo gli esami conclusivi della scuola media non suscitavano le preoccupazioni di cui oggi si ha notizia, sia tra le famiglie che tra gli insegnanti. Ho avuto occasione in questi mesi di conoscere tanti insegnanti che lavorano negli istituti comprensivi di varie province siciliane e ho avuto conferma di questa generale inquietudine sulla sorte di migliaia di ragazzine e ragazzini che si avvicinano al traguardo. Alla loro inquietudine vorrei assegnare un significato sociale, e latamente politico, degno di assurgere ad oggetto di riflessione per tutti coloro che sono interessati alle vicende dell’educazione e dell’istruzione nella nostra regione.
Di che cosa stiamo parlando? Qual è la novità rispetto al passato? La novità consiste nell’introduzione già da qualche anno, tra le prove che costruiscono la valutazione finale degli allievi, di una prova mandata dal Ministero che riguarda l’italiano e la matematica. Non che i ragazzini fino a quel punto non abbiano fatto esperienza di questo genere di test, che iniziano già nella scuola elementare. Il fatto è che queste prove vanno ad aggiungersi alle altre già previste e predisposte dagli insegnanti interni, generando un accumulo di sollecitazioni valutative non previsto neppure dagli esami conclusivi della scuola superiore. Va considerato peraltro che gli esami di fine scuola media non rappresentano più come una volta la conclusione dell’obbligo di istruzione, che dal 2006 è stato spostato alla fine del biennio delle superiori. Non si giustificherebbe pertanto, come riconosciuto da tutti gli osservatori, questa sorta di “accanimento valutativo” ad un certo punto del percorso scolastico.
Ma non si tratta qui soltanto di aggravio dell’impegno emotivo dei ragazzini. C’è dell’altro, che riguarda in modo più pregnante la vera funzione della scuola pubblica, quella, per comprenderci, che le assegna la Costituzione quando le chiede di rimuovere gli ostacoli che impediscono a ciascuno di realizzarsi come persona e come cittadino. Conosciamo tutti bene di che ostacoli si parla, quando si pensa alle scuole meridionali e siciliane. Si tratta di ostacoli, sociali, economici, culturali, linguistici, che rendono l’impresa educativa in molte zone alquanto proibitiva. Cosa ci si può aspettare da tanti tantissimi bambini e ragazzi che è già miracoloso tenere sui banchi di scuola? Cosa è lecito attendersi e che lavoro possono svolgere maestre ed insegnanti fin dalla più tenera età?
Incontrando gli insegnanti nelle scuole la risposta a questi interrogativi sembra unanime. Noi dobbiamo permettere ai nostri allievi di ottenere il massimo possibile date le situazioni di partenza. Ecco, questo tema, il tema del “massimo possibile”, sembra essere diventato un tema scomodo nella discussione pubblica sulla scuola. Che vuol dire il massimo possibile? Ci sono risultati che tutti i ragazzini italiani devono raggiungere. Non possiamo personalizzare i traguardi, perché in questo modo le competenze di un ragazzino di Milano finiscono per essere del tutto diverse da quelle di un ragazzino di Canicattì pur possedendo entrambi la stessa “licenza media”. Come la mettiamo? Infatti: come la mettiamo? C’è qualcuno in grado di trovare una soluzione al problema del ragazzino di Canicattì che parla solo in dialetto, che non ha i soldi per comprare libri e materiale didattico, che non ha a casa nessuno che lo segue, che trascorre tutti i pomeriggi per strada dietro ad un pallone, quando va bene? Chi deve farglieli raggiungere questi “traguardi” e cosa può chiedere la prova Invalsi a costui?
Supponiamo che questo ragazzino abbia il nome di Stefano. Cosa ha da dire la retorica del “successo formativo” su Stefano? C’è un successo formativo in generale cui Stefano è tenuto ad uniformarsi oppure gli insegnanti sono autorizzati ad elaborare un successo formativo per Stefano sul quale calibrare la loro valutazione? Fino all’ultimo atto del percorso, appunto gli esami finali della scuola media, gli insegnanti sembrano non avere dubbi. Abbiamo tirato su Stefano con lacrime e sangue, lo abbiamo visto crescere, migliorare, abbiamo visto rimossi molti ostacoli alla sua crescita, ora ce lo troviamo a tredici anni molto diverso da quando lo abbiamo accolto in prima elementare e siamo legittimamente soddisfatti del lavoro che abbiamo fatto perché ci siamo resi conto che era il “massimo possibile”. Ed ora? Ed ora che succede a giugno? Cosa ne sarà di Stefano? Adesso gli insegnanti di Stefano che faranno? Dimenticheranno quel che essi stessi hanno ricavato dal ragazzino? Oppure ne dovranno tenere debito conto nella valutazione finale, che però dipende anche dal modo in cui Stefano risponderà a quesiti che sono pensati anche per il suo compagno della scuola media bene di Milano centro?
Queste sono le inquietudini che ho raccolto nelle scuole di mezza Sicilia. La loro valenza politica non può sfuggire. Cosa valgono di più i risultati o i processi? Come si diventa cittadini a scuola? Quando un ragazzino è riuscito a prendere le distanze dal suo ambiente di riferimento, ha imparato a rapportarsi con gli altri, si è adattato in contesti in cui degli adulti fanno “discorsi culturali”, ha acquisito delle abilità e delle conoscenze che gli permettono di interagire in modo decente con la realtà e i suoi problemi, quando la scuola non ha fatto che dire “bravo” a questo ragazzino compiacendosi dei suoi progressi, potrà mai tradirlo al traguardo finale? E ove lo tradisse, non si macchierebbe di infedeltà al mandato costituzionale?
Pubblicato il 27 marzo 2013, in Educazione e scuola con tag Esami di stato, Istruzione, Scuola media, Studenti. Aggiungi il permalink ai segnalibri. 1 Commento.
Questo è IL problema, incredibilmente eluso da tutti, in nome dello STANDARD di valutazione, l’altare su cui sacrificare Stefano e i suoi proff che non ce la fanno insieme a lui.
Valentina Chinnici
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