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Murgia superstar? Ma la libertà non è una passeggiata

La scomparsa di Michela Murgia, come avviene di solito per tutte e tutti coloro che pongono un segno riconoscibile nel discorso pubblico, ha generato articoli e commenti sulle testate giornalistiche, dibattiti anche aspri sui social ed in generale espressioni di stima anche da parte di aree intellettuali a lei avverse. Non essendo un esperto di Murgia, perché non ho mai letto alcun suo libro, ma seguendola qua e là nel dibattito pubblico, ho cercato di rendermi conto di quale fosse (e ancora sia mentre scrivo) la posta in gioco delle celebrazioni o, per meglio dire, la valenza politica del segno da lei lasciato.
Mi è subito parso chiaro che la vita di questa donna è stata un inno alla libertà. E pertanto, come in tutti questi casi accade, pensiamo solo a Pasolini, è stata una vita divisiva. Ed è su questa platea di denigratori e plaudenti che vorrei soffermarmi, non ritenendomi in grado, per decenza intellettuale, di schierarmi tra gli uni o tra gli altri.
Tanto si è discusso sulla sua comunità queer, che avrebbe rappresentato la forma più alta di emancipazione intellettuale ed esistenziale, che Murgia abbia messo in atto, dallo schema familiare borghese. Non mi è sfuggito neppure il forte impegno nella direzione di un abbattimento degli stereotipi che costituiscono il brodo di coltura della violenza contro le donne.
Ho letto commenti provenienti da testate cattoliche come Avvenire, che con garbo e chiarezza hanno con evidenza manifestato rispetto ma preso le distanze dall’impostazione data da Murgia ai legami familiari. Niente di nuovo. Cosa deve scrivere Avvenire? Curiosamente queste prese di distanze vanno a braccetto con analoghe prese di distanze di loschi figuri della politica cui della famiglia cristiana non frega un tubo e usano il vangelo e la fede per farsi i propri comodi elettorali e aumentare consenso. Questo è squallore. Non Avvenire.
Tuttavia ho la sensazione che anche tanti plaudenti, che ad esempio inneggiano alla diffusione del Murgia-pensiero nelle scuole, siano mossi più da un’estetica social-chic che da reale e praticata sintonia di vedute o comunanza di pratiche in tema di libertà e di abbattimento degli schemi familiari legati al sangue e ai ruoli. Deliziose signore da apericena e selfie in gommone maritate in chiesa e rigorosamente eterosessuali e monomaschili sproloquiano sulla libertà di Michela Murgia probabilmente non avendo ben letto le coordinate della propria vita, le scelte compiute, la sequenza dei no alla libertà che la loro vita testimonia. Anche qui un po’ di misura e di decenza intellettuale non guasterebbe.
Il familismo italiano è ben celebre. Nella vita di tutti i giorni è constatabile il filo spinato eretto in tantissime famiglie borghesi tra familiari e parenti da un lato ed “estranei” dall’altro. Arruolarsi nell’esercito di Murgia solo in chiacchiera social-chic senza aver vissuto concretamente l’esperienza della comunità d’amore i cui confini non sono legati ai ruoli, mi pare operazione piuttosto banale. Forse a qualcuna o qualcuno che resta sedotto dallo schema-Murgia occorrerebbe spiegare le complesse dinamiche istituite da un’impostazione di questo genere, di cui si rischia di vedere soltanto una forma di libertà new age cui proiettare le proprie frustrazioni da ordinaria routine familiare.
Personalmente guardo con simpatia e ammirazione a quel modello di comunità, che rievoca – i cattolici lo dovrebbero sapere, se ancora aprono le Scritture – la relativizzazione dei legami familiari compiuta dallo stesso Gesù di Nazareth nel corso della sua predicazione. Non è il mio modello, perché ho fatto scelte diverse, perché ho seguito un’impostazione più borghese forse per scarso coraggio e debolezza di letture, ma proprio per questo adotto un profilo basso nell’urlare la mia adesione incondizionata al Murgia-pensiero e prendo le distanze dalle facili adesioni ed esaltazioni, perché la vita di Michela Murgia è stata scomoda, molto scomoda, mentre la vita delle inneggiatrici e degli inneggiatori alla libertà non mi appare spesso altrettanto scomoda.
Una parola sull’educazione e sulla scuola. Il pensiero di Murgia a scuola calerebbe come l’acqua sul marmo. La scuola è un contenitore altamente conformista, in cui lo schema-base della famiglia tradizionale raramente è messo in discussione. Il blocco genitori-docenti su questo è molto meno discontinuo di quanto facciano pensare le lamentele dei docenti nei confronti dei genitori. Sono pesci che si fronteggiano dentro lo stesso acquario, in cui Murgia non entrerebbe mai. Non c’è libertà di pensiero nelle scuole, solo uno schema esecutivo top-down che il ceto impiegatizio dei docenti ha la preoccupazione di mettere in atto. Se fosse stata una docente che interviene in un Collegio, Murgia sarebbe stata subito emarginata e richiamata all’ordine da qualche zelante dirigente ventriloquo del Ministero. Inutile prendersi per i fondelli e sognare libertà dove non c’è.
In conclusione, prima di inneggiare alla libertà ci si chieda che cosa vuol dire essere realmente liberi e si sia capaci di riconoscere che la libertà di tutti è molto ridotta, ed i coraggiosi alla Pasolini, alla Saviano e alla Murgia (senza scomodare Gesù, Socrate o Gandhi) si contano sulle dita di una mano. Tutte e tutti commossi al funerale di Murgia e poi tutti a casuccia col cagnolino in salotto, il maritino che nessuna mi deve toccare ed i figli, se ci sono, attorno al focolare domestico, meglio se frequentano ragazzi “sistemati”. Essere donne come Murgia non è facile. Occorre molta ascesi, molto lavoro su se stesse, molte scelte coraggiose, poca comfort zone. Appunto, molta libertà. Cose serie.
Ci sono da sempre. E ritornano sempre

1909. Da questa antropologia antisistema, antesignana di ogni Vaffa, nacquero la prima guerra mondiale e il fascismo. Allora c’era la poesia da cui tuonare, oggi ci sono i social. Ma la paranoia orientata alla Rottura è sempre quella, e percorre tutto il Novecento fino ad arrivare ai signori ostili al vaccino, che osteggiano la presunta Dittatura perché ne sono impastati fino al midollo. “Non vi è più bellezza, se non nella lotta”. Ne tengano conto professorini di filosofia, intellettuali compiacenti, simpatizzanti dei movimenti populisti e altra antropologia cialtrona, e ripassino un po’ di Storia.
Siete nella Storia
È stata sobria la Ministra. Se a soli 38 anni mi avessero fatto ministro, se ripenso a come ero a 38 anni, sarei stato molto più esagerato. Non avrei detto “Siete nella storia”. Avrei detto siete nell’Empireo, nell’ eterna beatitudine di chi non ha più niente da chiedere alla vita perché dalla vita ha ricevuto tutto ed è sazio di giorni e di esperienze. Altro che nella Storia. Invece la Ministra si è fermata alla Storia, che può soggiacere, come ci insegna Foscolo, all’oblio.
Ma non è detta l’ultima parola. Sempre sulla falsariga del poeta dei Sepolcri, c’è sempre qualche possibilità di restarci a lungo nella Storia, soprattutto per coloro che compiono “egregie cose”. E quali cose più egregie possono esserci nell’aver praticato la “resilienza” (sempre la Ministra) in quel periodo terribile di lockdown, lì, ammassati senza distanziamento all’interno dei rifugi antiaerei sotterranei, oppure, sempre senza distanziamento, sui barconi stracarichi sempre a rischio di affondare, o ancora in una baracca perché il terremoto si è portato via tutto.
La resilienza di questi nostri ragazzi merita davvero l’ingresso trionfale nella Storia.
Che dire? La Storia è davvero una passione di questi nostri ministri dell’istruzione meteora. Da anni credo che non se ne sia visto alcuno che non l’abbia invocata, così come la invocano i loro partiti di riferimento. I Cinquestelle in questo sono maestri – vedi abolizione della povertà – , forse perché avvertono oscuramente che la Storia li spazzerà via e senza tanti ringraziamenti. Per loro la Storia è davvero un pensiero ricorrente.
Chissà che però, magari raggruppati insieme in un paragrafo, questi ministri possano beneficiare di un posticino in qualche manuale di storia della scuola italiana. Lavorare sul titolo del paragrafo può essere un bell’esercizio interpretativo.
Cattivi maestri
Quel che più inquieta dei sette minuti e cinquantanove che vi chiedo di guardare con attenzione sono i dodici secondi di applausi. Il professor Sesta parla di coito e orgasmo pubblicamente ad una platea di persone ignare di quanto dannosa possa risultare, soprattutto dal punto di vista educativo, la rappresentazione dell’atto sessuale proposta.
La visione del professor Sesta, che per sostenere il suo ragionamento si appoggia incessantemente a filosofi e poeti, approda ad una conclusione che a mio parere rende urgentissimo cominciare anche pubblicamente a prendere le distanze da questo esercito di amorologi ed erotologi, tra cui il noto Recalcati, che negli ultimi tempi inondano platee, affascinate dal loro eloquio seduttivo, di teoremi sull’eros e sulla sessualità.
Passo in rassegna rapidamente alcune affermazioni del professor Sesta che questo intervento – ripeto, applauditissimo – ci offre:
Nell’orgasmo l’uomo è “costretto a concentrarsi sul proprio corpo piuttosto che su quello altrui”
“L’orgasmo è il momento in cui il rapporto diventa solitudine”
“L’orgasmo è esattamente il punto più basso del rapporto sessuale”
“Appena arriva l’orgasmo ciascuno dei due ricade su se stesso”
“E’ una sensazione neurofisiologica troppo intensa perché si possa badare all’altro”
Dopo il coito, l’uomo “se n’è andato”
Il coito indurrebbe a “nausea”
“C’è molta più intensità erotica nello sguardo che nel coito”
“Il coito è sempre sospetto”
Esistono miliardi di umani che fanno esperienza sessuale in modo completo fino all’orgasmo. Occorrerebbe davvero chiedere a quanti più possibile se si sentano “soli”, dopo. A sentire il professor Sesta i miliardi di coitanti del passato e del presente farebbero bene a superare la loro concentrazione su se stessi per entrare nello spazio altruistico di “baci e carezze”. Nulla di questo discorso farebbe pensare che questo esercito di persone possa continuare ad amare il loro partner mentre coitano e dopo che coitano. Ciascuno può constatare quanto senso di colpa e quanta frustrazione latenti si annidino nella ricezione di questo pericolosissimo ragionamento: come dire, quel che la natura fa accadere non é cosa buona. Meglio fermarsi prima per santificarsi? Aiuto.
Teorizzare pubblicamente su coito ed orgasmo è molto seduttivo perché solletica il non so che degli astanti, ma anche molto pericoloso, professor Sesta. Presentare questi, che sono approdi naturali (ripeto: naturali) della sessualità, come gesti tristi o in qualche modo egoisti non può avere che l’effetto di svalutare l’umano che è in ciascuno di noi, che restiamo animali razionali. Non angeli, ma animali razionali. L’eticizzazione dell’orgasmo mi appare quanto di più ingenuo e foriero di sensi di colpa possa essere offerto ai nostri giovani. La visione angelicata della sessualità che ne esce non giova se non a chi – come i plaudenti del video – desidera, per ragioni che non è il caso qui di approfondire, una rappresentazione dell’umano idealizzata, e per ciò stesso frustrante. Homo sapiens resta sapiens anche nel coito e nell’orgasmo, professor Sesta. Non solo, ma resta amans. Amans come un umano può amare. Perché gli umani amano in quanto umani, e se il professor Sesta ritiene questo modo di amare per lui insufficiente perché vuole indossare un vestito più stilnovistico, ciò non implica alcuna eticizzazione di atti che nella loro naturalezza sono gioia e pienezza per tantissime persone. Punto culminante, altro che punto più basso. Se i dati di cui è in possesso il professor Sesta – Letture? Esperienza personale? Esperienza raccontata? – gli hanno consegnato invece l’idea di un maschio “che se ne va” o che sarebbe “triste” dopo il coito – ciò che gli fa apparire lo stesso come punto più “basso” dell’atto sessuale – non possiamo consegnare questa visione ai nostri giovani, cui é doveroso narrare l’umano né ridotto a mero animale né ridotto – sì, ridotto – a creatura angelica.
Come disse qualcuno, di quel che non si può parlare sarebbe meglio tacere.
